Addio al padre della bossa nova
Elogio di João Gilberto
João Gilberto è morto in solitudine, senza più fama né fortuna. Questa sua fine segna drammaticamente la conclusione di una grande stagione creativa: quella del Brasile sfuggito alla dittatura e vissuto per decenni sulle nuvole dell'arte
João Gilberto, una delle leggende della bossa nova, non c’è più, è scomparso a 88 anni nella sua casa di Rio de Janeiro. Lo ha annunciato uno dei suoi tre figli, João Marcelo: «Mio padre è morto. La sua lotta è stata nobile, ha cercato di preservare la sua dignità mentre perdeva la sua autonomia», ha scritto su Facebook a proposito del musicista che fu tra i fondatori del nuovo rivoluzionario genere musicale. João Gilberto viveva a Rio da solo e in rovina. Negli ultimi anni il musicista aveva avuto problemi di salute, problemi familiari e anche economici. Era nato il 10 giugno 1931 a Juazeiro, nello stato di Bahia. Cantante e chitarrista, ha creato uno stile musicale rivoluzionario, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, la bossa nova, che mischia samba e jazz. Un nuovo modo di cantare e suonare la chitarra che ha fortemente indirizzato la musica brasiliana che ha così conquistato il mondo. Non si era sottratto alle novità producendo nel 1980 Brazil collaborando con Gilberto Gil, Caetano Veloso e Maria Bethânia, che verso la fine degli anni Sessanta avevano fondato il movimento Tropicalia che aveva fuso la bossa nova con il rock.
Tra i suoi successi internazionali la famosissima canzone Desafinado e l’LP João Gilberto, a volte citato come l’Album bianco della bossa nova. Era anche tra i firmatari di Garota de Ipanema, presentata per la prima volta al pubblico nell’agosto del 1962 in occasione della prima esibizione pubblica di Vinícius de Moraes come cantante, durante lo spettacolo Encontro nel ristorante Au Bon Gourmet di Copacabana, insieme con Antônio Carlos Jobim e João Gilberto, in pratica coloro che erano già considerati l’essenza della bossa nova. Durante lo stesso storico spettacolo, che fu replicato per sei settimane, Vinicius e i suoi compagni presentarono alcune nuove canzoni che sarebbero diventate dei classici del genere come Só danço samba di Tom e Vinicius, Samba do avião di Tom, Samba da benção e O astronauta di Baden Powell e Vinicius.
Joãozinho, come lo chiamavano gli amici, faceva parte di quel gruppo di cantanti, artisti e registi che aveva forgiato la nuova cultura brasiliana negli anni delle dure dittature militari. Aveva sposato come seconda moglie la sorella di Francisco Buarque de Hollanda e aveva creato un sodalizio durevole con Antônio Carlos Jobim. Il suo ultimo live era stato a Tokio nel 2004 e il suo ultimo album era una registrazione di duetti con Stan Getz uscito nel 2016. Come Vinicius, non scelse la via dell’esilio quando la dittatura si fece tragedia, dal 1964 al 1985, al contrario di Cateano Veloso, Gilberto Gil e Chico Buarque.
Di lui erano perse un po’ le tracce, oramai ultimo sopravvissuto della bossa nova assieme a Carlos Lyra, classe 1939 e Geraldo Vandré, classe 1935, dopo la dipartita di Jobim, Vinicius de Moraes e Elis Regina. In una trasmissione di “Fuori Orario” su Rai Tre, qualche anno fa passava spesso un vecchio filmato in bianco e nero girato nella Rio degli anni Sessanta. In un locale pieno di fumo, birra e cachaça, si potevano riconoscere i volti giovanili di Antonio Pecci, in arte Toquinho, di Jobim, João Gilberto, Baden Powell, Leon Hirszman, Pedro De Andrade, la nervosa Odete Lara, lo spettinato Glauber Rocha accanto a Gilberto Gil. D’improvviso, uno di loro batte un colpo, due colpi sul tavolo di legno, un altro lo segue, un altro ancora batte le mani, un altro tira fuori una chitarra e nasce un samba. Sembrava un mondo di sorrisi, nonostante ci fosse poco da ridere, era certamente un mondo solidale, di vibrante creatività e irripetibile ingegno.
Apparentemente, in quelle immagini non c’è nulla che rimandi alla tragedia latino-americana di quel periodo: i sequestri, le uccisioni, i desaparecidos, le torture e l’esilio per i più fortunati. Ma fu proprio la cultura – anche quella cultura allegra del filmato – che si assunse l’onore di denunciare la condizione sociale e politica di un intero continente, giungendo a diventare una voce di ribellione. Sono gli anni di Antonio das Martes di Glauber Rocha, di Tropicalia di Caetano Veloso, dei quadri di Oiticica, gli anni in cui le opere teatrali di Chico Buarque venivano interrotte dagli squadristi armati. Il V° atto costituzionale del 13 dicembre ’68 e la legge sulla censura preventiva del ’70 provocò, oltre che una pesante limitazione dei diritti umani e politici dei cittadini brasiliani, anche uno scadimento dell’arte. Protestarono vivacemente Vinicius de Moraes, dall’alto della sua autorità morale, Nelson Rodrigues e Erico Verissimo. A tappe diverse e per differenti itinerari personali le migliori menti lasciarono il Brasile: Chico e Glauber vennero a Roma, Caetano Veloso e Gilberto Gil dopo la prigionia fuggirono a Londra, altri si rifugiarono a Cuba o in luoghi che poco avevano a spartire con il Paese della samba, da Mosca a Pechino. Anni da pugni in tasca, anni di zingari della pellicola, randonneur della poesia e della canzone (Glauber Rocha si definiva «poeta tricontinentale»).
La vita errabonda creava una rete di solidarietà e intrecci. La precarietà forniva alito all’amicizia, l’amicizia creava amori incerti e provvisori sul piano sentimentale ma solidi sul piano umano. Gli unici indirizzi conosciuti e certi erano quelli degli amici, allora si diceva “compagni”. Una comunità sparsa nei continenti, che superava il Muro di Berlino e l’oceano Atlantico, le barriere delle dittature d’Occidente d d’oriente. E appena un vento di libertà vinceva le resistenza della storia (vedi il Portogallo), la comunità si insediava sulla cima delle nuvole creative. Sui muri di ogni angolo fiorivano gli appelli di Glauber Rocha: «Estetica della fame», «Dall’illusione del potere a una nuova speranza», «Lettera ad Alfredo Guevara», «Teorica e Pratica del cinema latino-americano». È passato davvero tanto tempo e scoprire che João Gilberto è scomparso in solitudine e rovina ci fa capire che l’evoluzione culturale e politica non sempre cammina verso l’alto.