A proposito di "Io non sono Clizia"
Clizia e Montale
Valeria Traversi racconta (come un romanzo) la passione tra Irma Brandeis ed Eugenio Montale: un amore vissuto soprattutto da lontano, ma pieno di poesia, illusioni e invenzioni tra un grande scrittore e la sua musa
Una giovane studiosa americana che bussa alla porta del direttore di una prestigiosa istituzione culturale fiorentina. Un direttore che è, sì, direttore, ma anche e soprattutto poeta già affermato con un solo libro all’attivo e qualche inedito. Un’americana dagli occhi di acciaio che discende da una famiglia ebraico-austriaca aderente all’eresia messianica di un certo Jakob Frank, seguace di Sabbatai Zevi. Un poeta che vive di attese brucianti e immagazzina ogni singola emozione, rilasciandola in versi condensatissimi dopo anni e anni. I due ― la studiosa e il poeta ― che si vedono poche settimane nell’arco di cinque anni (dal 1933 al 1938) e, dopo un progetto di fuga insieme, troncano ogni rapporto per oltre un quarantennio fino a un sospirato, non avvenuto, soltanto sfiorato, incontro finale. No, non è la storia di qualche autore “rosa” inglese. È la storia di Irma Brandeis ed Eugenio Montale, di Clizia e di Arsenio.
Quello di Valeria Traversi, Io non sono Clizia (Raffaelli editore, prefazione di Marco Sonzogni, pp. 230, € 20), è dunque un romanzo del romanzo. Spalmato nelle poche estati di vicinanza e nei lunghi decenni di amor de lohn, la vicenda si snoda tra ricostruzione filologica (in particolare, tratta dalle lettere di Montale alla Brandeis e dal diario di quest’ultima, nonché da una nutrita bibliografia critica) e libera reinvenzione di dialoghi, segmenti e interstizi narrativi che hanno funzione diegetica dove, al modo del Werfel di Das Lied von Bernadette, «bisognava far scoccare scintille di vita dalla materia trattata». Come nota giustamente Sonzogni nella prefazione, «la stessa Brandeis, con Montale già nell’etere dell’aldilà, ha confidato alle pagine del proprio diario che “il passato può sempre essere presente”. C’è, ovviamente, modo e modo di riavvolgere il nastro di vite altrui e sicuramente quello di uno scritto letterario avrebbe trovato più consenso da parte di Irma». Il lavoro di Traversi ha naturalmente finalità estetica, ma non nasconde con eleganza d’antan la discrezione etica di una studiosa-scrittrice che si accosta alla vita, a persone realmente esistite con rispettosa fantasia (è scritto, infatti, nella Nota dell’autrice: «Questo romanzo non è la storia del poeta e della sua musa quale è stata storicamente, è piuttosto la mia storia, la storia di come le parole e, in mancanza di esse, anche soltanto le tracce lasciate da queste due “ombre concordi”, hanno preso consistenza nella mia fantasia dando vita ai miei personaggi»).
Strutturalmente parlando, il romanzo parte dall’estate del ’43 e dal bisogno di Irma di rileggere le lettere che Montale le aveva scritto, allorché viene a sapere dell’armistizio italiano dell’8 settembre. Riparte così il film interiore del ricordo: il viaggio a Firenze, l’incontro quasi disastroso al Gabinetto Vieusseux, un Montale ironico e impacciato, assai lontano, per non dire del tutto inconciliabile alla sottigliezza dei Cuttle-fish bones (gli Ossi di seppia) che Irma leggeva e rileggeva, incantata. Anni difficili, eppure momenti indimenticabili, in cui tutto è ancora possibile: l’avvenire che, nonostante le nubi scure all’orizzonte della sventurata Europa, pare radioso per l’americana innamorata di Dante e dell’Italia, e che ora sembra cominciare a sorridere anche al grigio e indolente poeta, contagiato dall’irrefrenabile vitalità della sua musa. Com’è giusto che sia, Traversi modula il suo registro narrativo sulle variazioni sismografiche degli stati d’animo di Irma, aggiungendo introspezione psicologica a ogni tassello dell’evoluzione sentimentale: «Con immensa malinconia a Irma sembrò che anche Firenze avesse perso la sua aura magica e così quando il suo sguardo fu attratto dalla familiare insegna del tea room di via Tornabuoni, scenario di tanti incontri romantici, continuando a guardare fuori dal finestrino, lasciò sfuggire la propria tristezza in parole dette piano, più con delusione che con rabbia: “Mi sembra che nulla sia accaduto veramente”».
Molte cose si oppongo alla loro relazione: gli spettri del passato di Clizia, un catastrofico soggiorno a Venezia ― poi immortalato da Eusebio in alcuni tra i più comici pezzi in prosa e in versi ―, lo struggle con Mosca, decisa a non lasciare il guado del comando alla rivale e pronta a tirar fuori dai suoi paraphernalia ogni possibile mezzo di persuasione. Molto si oppone: l’Europa a ferro e fuoco, le leggi razziali, il lavoro perso al Vieusseux. Ma più di tutto a opporsi sono loro stessi, malgré eux: una donna energica che guidava l’automobile e fumava ― incomprensibile per un italiano degli anni Trenta del secolo scorso ―, desiderosa di una vita eroica e restia a identificarsi nella mutazione eliotropica; un uomo assediato dalle visioni sino alla paralisi esistenziale, sollevato da un’autentica venerazione della donna amata, eppure invischiato in una morte che vive. Non è compito nostro dare giudizi ― spettano a chi è più grande di noi ― e il romanzo di Valeria Traversi mantiene, con rara maestria, questo codice morale dall’inizio alla fine. Grazie al suo tatto e alla sua finezza poetica racconta i conflitti, le callidae iuncturae, i fili intricati di un periodo storico durissimo senza dimenticare (anzi, partecipando emotivamente) che dolore può fare rima con amore. «Ho vissuto tutta la vita col dolore di un amore a cui non è stato concesso di vivere. Ma ho vissuto. E ora posso dire anche di aver avuto tanto. L’essenziale: ho amato e sono stata amata».