Una vicenda (vera) di dolore e disagio
Storia di Rocco
«Rocco veniva a scuola con me, abbiamo fatto insieme la seconda, la terza e la quarta elementare. Era un bambino strano, con una faccia buffa, la bocca larga e le orecchie a sventola. Era esile, ma muscoloso, non tanto alto»
In un condominio popolare a Pescara vivono Rocco, che ha trentun anni, la madre, il padre e il nonno. La sorella minore è sposata, vive altrove con la nuova famiglia. Rocco ha fatto l’elettricista, ma da sei anni un lavoro non lo ha più; per avere uno spazio suo ha arrangiato un appartamentino nella soffitta. Qualcuno dice che abbia un rapporto con una donna straniera che gli spilla soldi, ma sono solo chiacchiere, qualcuno dice anche che si sia messo in un giro di macchine usate, ma sono chiacchiere anche queste. Lui la macchina non può guidarla, perché cinque anni prima lo hanno arrestato: guidava ubriaco e gli hanno ritirato la patente; poi è stato anche ricoverato per problemi psichiatrici, causa o effetto della dipendenza dall’alcool.
Rocco beve, a quanto pare, beve tanto, regolarmente; e da uno che è ubriaco fisso, specie se è già un po’ spostato di suo, non ci si possono aspettare comportamenti tranquilli, rapporti sociali regolari, una vita familiare sana. Capita che dia di matto in casa con i suoi; e di quello che fa fuori casa, poco si sa.
Una sera rientra verso mezzanotte, ha con sé un cartone da sei di vino; il padre aspetta sveglio, ha l’abitudine di andare a letto per ultimo, perché a volte Rocco è violento con la mamma. Lui è già ubriaco, ma si attacca ancora alla bottiglia. Suo padre vorrebbe che smettesse, glielo dice, Rocco non è dello stesso avviso, litigano. Poco dopo, il padre, che è cacciatore, ha in mano un fucile carico, gli spara diversi colpi, ma lo prende solo alla spalla. Rocco si rintana in cucina e chiude a chiave la fragile porta a vetri. La mamma accorre, si getta sul marito, gli toglie di mano l’arma; intanto Rocco, atterrito e sanguinante, chiama al telefono i carabinieri chiedendo aiuto. I militari arrivano dopo quattro minuti; quando sono sul pianerottolo, davanti alla porta dell’appartamento, sentono degli spari. Il padre è riuscito facilmente a entrare in cucina e, con un altro fucile carico, gli ha sparato quattro colpi da vicinissimo. La resistenza della moglie non è riuscita a impedirgli di finire il lavoro iniziato.
Il fatto è successo il 15 febbraio del 2007, tanti anni fa ormai. L’ho saputo da poco tempo e ho ricavato questi pochi fatti da articoli di giornale rimasti online e da qualche testimonianza di amici.
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Rocco veniva a scuola con me, abbiamo fatto insieme la seconda, la terza e la quarta elementare. Era un bambino strano, con una faccia buffa, la bocca larga e le orecchie a sventola. Era esile, ma muscoloso, non tanto alto. Non stava mai fermo e ne combinava in continuazione. Per questo aveva un rapporto specialmente intenso con il maestro, per le marachelle continue. Aveva anche una pronuncia strana: a parte la erre moscia labiodentale, tipo vu, aggiungeva la enne davanti alle consonanti e sbagliava qualche parola, invece che “foglia di geranio” gli usciva “foja di ngevàmo”.
Il maestro era un omone vecchio, dignitoso e severo. Aveva sempre la giacca e la cravatta; portava vestiti di lana grossa, che avevano fatto battaglie, in fantasie perlopiù scompagnate sul marrone, ma l’insieme era sobrio e autorevole come una divisa. Un tenue profumo di lavanda doveva provenire dalla brillantina che gli teneva schiacciati sul cranio i pochi capelli bianchi. Era uno che prendeva molto sul serio il suo ruolo e voleva bene ai bambini, a una sua rude maniera. Certe abitudini e metodi educativi che aveva farebbero scandalo oggi, ma più di trent’anni fa apparivano solo un po’ antiquati. Facendo due conti, era nato prima del ’20 e forse aveva iniziato a fare scuola addirittura prima della guerra, cioè in un’altra epoca. E a quei tempi era rimasto come mentalità e sistemi.
Anche la scuola era vecchia, dignitosa e severa, con i finestroni a riquadri e un pavimento rosso sul quale si scivolava meglio che sulla neve, perché era consunto dai passi e incerato religiosamente da Cetteo il bidello, che era un cerbero buono e sapeva i nomi di tutti. Dava in escandescenze quando facevamo le “scivolate”: «Ve spaccat’ la coccia» ci urlava. Parlava solo dialetto, era grinzoso e sdentato, avrà avuto cinquant’anni.
Rocco era una peste e il maestro lo seguiva e lo curava da vicino, nel modo che riteneva più giusto, cioè principalmente a schiaffi. Non era l’unico che prendeva schiaffi, li prendevamo un po’ tutti, specie i maschi: schiaffi, tirate d’orecchie, e micidiali tirate di basetta, che erano, credo, una sua esclusiva. Rocco ne riceveva di più, di questi trattamenti, e ciononostante non diventava più buono, anzi. Non faceva niente di eccezionale, rideva quando doveva star serio, facendo ridere anche gli altri, si alzava quando doveva stare a sedere, strappava un foglio e cose del genere. Non era litigioso, con i compagni era docile, andava d’accordo con tutti e cercava di coinvolgere tutti nelle imprese strambe che lo divertivano; era con le regole che aveva qualche problema, specie con quelle che imponevano silenzio e attenzione.
I nostri genitori, nel complesso, non erano molto d’accordo con gli schiaffi; la mamma di Rocco invece sperava che con quella cura il suo bambino si calmasse un po’; diceva: «Mae’ dategliele, dategliele, che gliele do pure io, ma non gli fanno niente». La mamma di Rocco era una donnina piccola, con un sorriso mesto, vestita da vedova, anche se il marito lo aveva vivo e vegeto purtroppo. Forse portava il mezzo lutto per qualche parente. Capitava a volte che venisse a prendere a scuola i figli, Rocco e la sorellina, con una busta di caramelle da offrire agli altri bambini.
Così il maestro si teneva vicino quel bambino agitato, anche per uno speciale incarico quotidiano, il rito della stufa: «Peri’, va’ a piglia’ la ttufa!», era la prima cosa che diceva dopo “buongiorno” quando entrava in classe nei mesi invernali. Gli mancava la esse e lo chiamava per cognome, non so bene perché, dal momento che tutti gli altri li chiamava per nome. Gli dava la chiave, Rocco andava all’armadietto, apriva, tirava fuori la stufa, poi richiudeva il lucchetto, piazzava la stufa vicino alla cattedra e attaccava la spina. La stufa era un ordigno arcaico di ferro smaltato marrone con davanti due barre che diventavano incandescenti. Nessun bambino si ustionò mai una mano sulle resistenze e nessuno rimase attaccato alla corrente, anche se cavo, spina e presa facevano a gara a chi fosse più vecchio e malandato.
A Rocco toccavano anche altri comandi come andare a prendere i gessi, cancellare la lavagna e simili; non si lamentava mai né di fare il factotum, né di prendersi tutti quegli schiaffi; l’ho visto piangere una volta sola. Era il pomeriggio dei colloqui, che si tenevano nell’aula dove facevamo scuola; in queste occasioni il maestro fumava la pipa e l’aria si impregnava di quel fumo dolce, legnoso e avvolgente, ancora più buono di quello dell’incenso. Era normale che le mamme portassero dietro i figli, forse non avendo a chi lasciarli: i genitori e il maestro in classe e noi bambini fuori, nel corridoio enorme con i pavimenti lustri; era strano ritrovarci a scuola di sera, senza qualcuno che ci sorvegliasse, ci piaceva. Rocco tirò una testata a una finestra rompendo un vetro; non ricordo l’istante esatto, fu una cosa improvvisa e nessuno ne capì il perché. Ebbe un attacco di pianto violento, con lacrime e singhiozzi che lo scuotevano tutto, sembrava disperato, quando in fondo non era successo gran che, perché in testa aveva un cappellino di lana e i vetri di quelle finestre vecchissime erano sottili come un velo, bastava niente per romperli. Quando il maestro gli tolse il berretto e gli guardò la fronte e la testa insieme alla mamma, non trovò nemmeno un graffio, non s’era fatto niente. Ma piangeva a dirotto senza riprendere fiato.
Come tutte quelle sue marachelle chiedevano schiaffi – che puntualmente arrivavano e non erano soavi come carezze, ma erano pur sempre qualcosa – chissà cosa chiedeva quel pianto. Poi non mi ricordo bene cosa successe, forse nient’altro.
Sono andato via da Pescara a dieci anni e non ci sono più tornato; non sapevo niente su cosa fosse stato di Rocco e dei suoi fino a pochi giorni fa, quando ho letto un vecchio articolo di giornale su una squallida storia di disagio e disperazione.
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Accanto al titolo, un’opera di Francis Bacon