A proposito de “I luoghi del pensiero”
La mela del sapere
Isaac Newton, Spinoza, Albert Einstein, Karl Marx, Thomas Mann: Paolo Pagani va "a passeggio" tra i luoghi e i fondamenti del sapere occidentale. Per calcolare quale reale, terribile distanza ormai ci separa da loro
Il dubbio è così forte che a volte diventa malinconica certezza: oggi siamo mediamente più ignoranti di ieri? L’Europa, che recentemente si è posta delle domande politiche, è da considerare ancora la naturale erede del grande pensiero scientifico-filosofico-letterario? Isaac Newton, e siamo a cavallo tra il 1600 e il 1700, sosteneva che «viviamo in un gran mare di ignoranza». Siamo intellettualmente onesti: dal 1945 a oggi, l’Europa ha attraversato un periodo di pace, periodo tra i più lunghi della storia dell’umanità. Non si può che partire da questa verità, anche se, pensando ai giganti del pensiero di una volta, è tremendamente strisciante l’impressione di vivere una stagione culturalmente mediocre. Per prudenza e onestà rimaniamo nel cortile italiano, dove le cose le vediamo più da vicino. Inconfutabili alcuni dati.
Cala il numero dei lettori di libri e di giornali. Aumenta la difficoltà di comprendere appieno un testo. Per questa ragione alcuni editori chiedono agli autori di scrivere nella maniera più semplice possibile, a costo di semplificare rischiando la banalità. Ci sono corsi post laurea per re-imparare (sic) la madrelingua ed evitare madornali errori. Qualche ora davanti alla tv basta per assistere ai quotidiani funerali dei verbi al condizionale. I talk show (sempre più allargati e frequenti, visto che siamo sempre in campagna elettorale) e certi reportage ci sbattono in faccia quel che anni fa erano considerati difetti: l’approssimazione, la retorica arrogante, la rivincita del grossolano. La globalizzazione non ha portato solo il liberismo crudele, ma anche la vocazione al pensiero unico.
Una spiegazione-alibi rimanda a una verità cui si crede in modo dogmatico: siamo alla fine delle ideologie e non esiste ormai più differenza tra destra e sinistra. Questo sul piano politico. Rimane il fatto è periodo di grandi idee modeste, e lungi dall’essere fondanti. Nostalgia del passato? Diventa più legittima se si legge il libro di Paolo Pagani, I luoghi del pensiero, con il seguente sottotitolo “Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo” (Neri Pozza, 353 pag., 13,50 euro). È lo stesso autore ad avvertire che non è un libro di filosofia, ma un viaggio-reportage alle radici della cultura europea. L’autore si reca nei luoghi dove scoppiarono le idee. A cominciare dall’Amsterdam del 1600. Fatta la premessa che in quella città esistevano molte sacche di oscurantismo religioso, senza parlare della peste. Proprio in faccia al municipio c’è la statua bronzea dell’ebreo sefartita Baruch Spinoza. Faceva il commesso nel negozio di spezie del padre, la sua famiglia scappò dalle persecuzioni antisemite in Spagna e Portogallo. Fu un uomo appartato che cambiò varie residenze: non per volubilità, ma per essere il più possibile al riparo di detrattori, e tra questi ci furono anche i suoi correligionari. La sua era una forte vocazione minoritaria. Baruch era laico nel profondo, pensieroso, fragile e isolato. Aveva solo 24 anni e ricevette la scomunica, fu additato come eretico. Quella “bolla” si chiamava cherem, o bando perenne, pronunciato dai Signori de ma’amad, il consiglio degli anziani al governo della congregazione ebraica. Eppure non aveva ancora scritto un testo esplosivo. L’accusa si basava su alcune considerazioni che ingenuamente Spinoza, sollecitato a conversare con amici, aveva esposto a chiare lettere.
Ma qual era la colpa di un uomo mite e profondo i cui libri furono bruciati dai nazisti assieme a quelli di Freud, Einstein, Marx, Wweig e Heine? “Colpa”, poi? Baruchu a un certo punto mutò nome: si fece chiamare Benedicus. La sua tesi era per così dire “pesante”: rifiutò le superstizioni magiche, canzonava i miracoli, frutto dell’ignoranza degli uomini. Come ebreo frequentò i memmoniti, i quaccheri e i sociniani che respingevano i dogmi della Trinità e della Redenzione. E si teneva alla larga dall’ortodossia protestante. Più scomodo di così! Proclamava il diritto di ogni uomo a pensare liberamente sulla base del razionalismo. Non solo: Spinoza contestava addirittura la dottrina del “popolo eletto”, la presunta supremazia ebraica (lui ebreo di nascita). Altri bersagli della sua dottrina: il concetto di provvidenza, dell’immortalità dell’anima, il meccanismo secondo cui i bugiardi fossero destinati a pene eterne. Anche se le sacre scritture gli parevano fonti di insegnamento morale, considerava queste non come verità infallibili. Identificava Dio con l’universo e, rifiutando il creazionismo tutto sommato fu l’antesignano del pensiero evoluzionistico di Charles Darwin. Scintillante logica, avrebbe detto poi Charles Baudelaire. Per lui Dio non sceglie, è libero soltanto da costrizioni esterne, «e lui appare l’unico mondo perfetto, come è perfetto lui». Un colpo allo stomaco di una potenza indicibile.
Non a caso Baruch, o Benedictus (autore della famosa Ethica), offeso dalla lontananza gelida delle religioni dalle ragioni del cuore, fu il filosofo più maltrattato, insultato e odiato (scampò a un attentato: di qui il suo errare e il suo perpetuo nascondersi). Con lui, si potrebbe dire, nacque l’illuminismo. Non solo: col suo celebre concetto di “conatus” (indomita tendenza alla salvaguardia del essere di ciascuno) abbozzò una sorta di inerzia esistenziale. Con l’elogio del dubbio, con lui s’apriva l’orizzonte dello scetticismo. Più tardi Hegel disse che aveva segnato un nuovo inizio, in tutti i campi. Baruch viveva nel dogmatismo ottuso e vendicativo, eppure fu lui ad additare una conoscenza scientifica fondata sull’esperimento, sull’emancipazione sovversiva. Possibile che fosse additato come nemico in una città dove 30 mila persone su 150 mila abitanti di Amsterdam vivevano di una floridissima industria editoriale ( fine ‘600 i librai in città erano ben 273). Possibile per chi additava l’inizio di una rivoluzione intellettuale.
Il libro di Paolo Pagani è riccamente articolato e, oltre a Spinoza, ci racconta vita e pensiero di altri giganti, che, in queste colonne, non si riesce a comprimere a rischio di orrenda sintesi. L’autore va nei luoghi di Leibniz e Newton, descrive la miseria del vivere quotidiano di Marx, procede nel paesaggio geografico-filosofico di Heidegger e della Arendt, e infine esplora un Thomas Mann abitudinario e privilegiato dalla ricchezza, un premio Nobel che la letteratura deve porre sull’alto scaffale della cultura.
«L’uomo che rese per sempre popolare la mela, molto prima dell’iPhone (ben dopo Adamo ed Eva, se si crede nella Bibbia)» scrive l’autore, fu probabilmente il più grande scienziato di sempre: Isaac Newton. Inventò la fisica moderna in un pomeriggio del 1666 dopo essere scappato dal Trinity College di Cambridge a causa della peste che martoriava l’Inghilterra. Una nota sulla mela: per anni il famoso albero fu meta di scienziati e curiosi. Pare che non sia rimasto nulla oggi, ma certi studiosi sono convinti che la radica sia originale. Newton, scopritore della gravità (con la gratitudine postuma di Albert Einstein), dichiarò: «Se ho visto più lontano degli altri è perché sono salito sulle spalle dei giganti». Galileo e Keplero furono in effetti predecessori nelle scoperte agronomiche. La gravità non è solo una mela che accidentalmente cade da un albero, ma la scoperta dell’attrazione a distanza di pianeti, come recita San Bernardino di Chartres in una lettera al fisico Robert Hooke.
Newton pensava che la scienza fosse lo strumento più esatto per giungere a rivelare la presenza di Dio in tutte le cose. Un perfetto cattolico? Per niente visto che abbracciò convinzioni eretiche. Per esempio mise in discussione il dogma della Trinità, assolutamente convinto che Cristo fosse subordinato al Padre, quindi non consustanziale. Una sorta di mediatore tra Dio e il mondo. Isaac respingeva fortemente l’idea del diavolo e pure la tesi dell’immortalità dell’anima. La mente deve partire dal reale ( anche da una mela che cade). Certe sue teorie, che formarono colpevolisti e i innocentisti di fronte alla più importante scoperta nelle matematiche dai tempi di Archimede. Sfortuna volle che il filosofo Leibniz fu più svelto a mettere su carta tale scoperta. C’è da dire che Leibniz condusse una vita estremamente mondana, in continuo contatto, da uomo carrierista e vanitoso, e s’ingraziò molti corti d’Europa. Nulla toglie che Leibniz insegnò l’apertura della mente, tutta da sprovincializzare, e concepì il linguaggio aritmetico binario, formato soltanto da zeri, che precorre gli algoritmi del mondo digitale.
Che dire poi di Karl Marx da Treviri, la più antica città della Germania? Una vita da miserabile, attorniato dalla generosa moglie e da tanti figli. Culturalmente era molto preparato- aveva studiato a Parigi, Bonn e Belino- e spesso riceveva denari dall’amico Friederich Engels ( entrami scrissero il Manifesto del partito comunista), ma per tutta la vita soffrì di stenti. Cambiò in continuazione residenza, peraltro senza mutare radicalmente le sue condizioni ambientali. Studiava accanitamente in libreria. Aveva delineato i contorni del comunismo, sostenendo che la borghesia aveva forgiato le armi per la sua stessa fine. Era convinto che il proletariato (ma non fu quello inglese: la realtà storica preferì la Russia). Perseguitato dai debiti (fu pignorata la culla di un suo figlio piccolo) concepì Il Capitale in un sordine bilocale a Soho. La cattedrale del suo pensiero economico-politico nacque tra la sporcizia e il chiasso. John Maynard Keines, altro gigante dell’economia, dichiarò: «Nessun pensatore del secolo scorso ha avuto influenza così diretta, meditata e profonda sull’umanità quanto quella esercitata da Karl Marx». In quale alla fine emigrò in Inghilterra, la culla della rivoluzione industriale, senza però gustare il silenzio della campagna britannica. A una certa distanza c’era l’elegante villa di Charles Darwin, baciato dalla tranquillità e dalle sue rendite. Entrambi elaborarono sistemi geniali e rivoluzionari.
Darwin fece scandalo nel 1859 quando comparve la sua Origine della specie, dalle conseguenze strabilianti. È come la confessione di un delitto, e come tale fu accolto dalla maggior parte, tra benpensanti e studiosi dell’epoca. La sua teoria aveva un contorno paradossale: l’esito della selezione naturale è che tutta la bellezza e la diversità delle cose viventi sono il prodotto dell’infinita sofferenza e dalla morte, e solo attraverso una guerra della e nella natura che ogni nuova forma di vita può essere distrutta, mentre le altre prendono il suo posto. È un attentato dinamitardo alla morale. Darwin come un altro Galileo.
Giganti, anche se hanno passeggiato su una società non sempre dignitosa, anzi disperata a causa delle guerre, della povertà, dal flagello della peste. Oggi il terreno è salubre, ma non si scorgono pianticelle così importanti e così eretiche.