In margine alla Biennale Arte
Il sogno di Anese Cho
Le opere della coreana Anese Cho al Laboratorium-Venezia sono l'emblema della ricerca al femminile nell'arte di questo tempo: il segno del femminile per eccellenza (la “frammentazione”) non rimanda ad una denuncia, ma riempie di sé lo spazio
Sono passati venticinque anni da quando Margherita Manzelli, in Calmo fiume nero, presso lo Studio Guenzani di Milano, reggeva il mondo tra i denti: coniugando passione per la performance e pittura, l’artista presentò oli su carta appesi al soffitto con fili di nylon scuri che lei stessa stringeva in bocca. Tutto il mondo faticosamente tenuto; la vita, ogni vita scissa in più parti (per lo più, dissonanti). La distanza tra l’aspirazione all’armonia e la necessità di denuncia corre come un filo rosso – doloroso e vitale – lungo tutte le vicende artistiche del secolo appena trascorso e si ripropone in questo, sostanzialmente identica. Dalla Womanhouse organizzata da Judy Chicago e Miriam Schapiro, esperimento californiano degli anni Settanta allo stupro pubblico messo in scena dalla cubana Ana Mendieta per analizzare le reazioni del pubblico; dalle donne in nero di In Mourning and In Rage di Suzanne Lacy alla violenza criminale e politica denunciata nelle installazioni della colombiana Doris Salcedo: l’intervento del femminile in arte delinea un’istanza di sensibilizzazione, illuminando via via spazi dell’esperienza, dalla sfera privata (il corpo percepito, il corpo su cui si esercita violenza) a quella pubblica. L’essere nel mondo delle artiste ha significato, fino ad ora, rivendicare la presenza, la riflessione, la condivisione del pensiero. Di più: la sua trasmissione.
Colpisce invece – nella Biennale d’Arte veneziana 2019, così plurima da stordire, in qualche caso vetrina dello stereotipo – la solitudine di Anese Cho. Coreana di Seoul, sbarcata al Pratt Institute di Brooklyn e da molti anni residente negli Stati Uniti, Cho è la protagonista di Fragmentation al Laboratorium-Venezia in Santa Croce, calle de Mezo 1592. La mostra, curata da Thalia Vrachopoulos e appena inaugurata, resterà aperta fino al 22 luglio.
Sono opere dalla valenza onirica, le installazioni di Anese Cho, di sapore felliniano: l’artista delinea per sottrazione nel compensato, nel legno, in fogge tridimensionali o, più sinteticamente, sul muro, per accenni, il profilo di un seno femminile. Usa il rosso per indicare l’assenza – della vita, della fisicità – e il nero per rivestire d’ombra il contesto; lo fa con superfici seriche e lisce o suggerendo rotondità siliconiche. È giovane, gli anni dell’Uovo di Mirella Bentivoglio, dei dubbi identitari in Adrian Piper e Kiki Smith sono lontanissimi dalle sue forme lineari, anche se ne riecheggiano l’aspetto pop. Tuttavia, mentre Anese Cho illustra i suoi lavori, nello spazio ruvido che li ospita, – un pianoterra con soppalco e mattoni a vista, nei pressi di campo San Giacomo dall’Orio – si coglie il disorientamento, come una lieve vertigine. Si capisce che la riflessione di genere sull’essere spezzati, sull’accettazione recalcitrante dei troppi ruoli messi sulla bilancia, compie nelle sagome lignee di Fragmentation un passo ulteriore. È un passaggio non condiviso, a ben pensarci politicamente regressivo, ma importante sotto il profilo delle dinamiche sociali. Dalle devastazioni conclamate della guerra ai sottili soprusi del quotidiano, vi si legge l’allerta continua che penetra nelle pieghe più nascoste. L’icona – piccola o smisurata che sia, non cambia la sostanza – si trasforma nella sfera di Prova d’orchestra; erompe, sollecitata dalla memoria e, infine, s’incarna.
È questa la differenza: ogni “frammentazione”, da simbolica, finisce qui nell’alveo del pensiero materiale. Racconta uno stato disagevole, ma (quasi orgogliosamente) unitario. Il segno del femminile per eccellenza non rimanda ad una denuncia, ma riempie di sé lo spazio. Cho lascia a Thalia Vrachopoulos l’analisi dei codici simbolici, la definizione di un percorso femminista. Laddove Thalia mette in gioco il rapporto con Jacques Derrida e le sue spie testuali, per sostenere una qualche forma di decostruzione, l’artista ribadisce che Fragmentation è un’evidenza, un dato di fatto: «Nei miei lavori – sostiene – posso solo esprimere più velocemente quello che vivo. Sono Cho, contemporaneamente qui ed oltre, devo prendermi cura di ogni mio figlio, di ogni mio pensiero. Io, con tutti i limiti che il mondo mi pone, sono questo». Con estrema sincerità, con realismo, Anese fa il punto, in attesa di passare oltre: perché quell’ansia combattente con cui Manzelli reggeva il mondo tra i denti o Silvia Giambrone si cuciva pizzi sulla carne, non ha funzionato fino in fondo, se si è ancora a parlarne come strumento di lotta.
«Non ricordarti di nulla e prova a dormire senza sonno. Devi ornarti di amuleti, abbi fede nel fatto che ti aiuteranno. Abbi fede in qualsiasi segno. Ascolta attentamente il tuo ventre. Agisci secondo le tue sensazioni. Se pensi che non bisogna camminare per quella strada, allora vai per un’altra» scrive il poeta bosniaco Nedzad Maksumic nel suo Indicazioni stradali sparse per terra. Anche Anese Cho va per un’altra strada, forse per paura, per incoscienza. Si può arrivare a sospettare che la solitudine confini con un’illusione di forza. O invece no, è solo un segno dei tempi.