A proposito di "Esiste Ascoli Piceno?"
Ascoli non esiste
Adelphi ripubblica uno scherzo letterario (tra il metafisico e il filosofico) di Giorgio Manganelli. La vaghezza della città coincide con quella delle parole, della comunicazione, dell'intenzione stessa di entrare in relazione con l''esterno da sé
Secondo la leggenda – riportata, non priva di varianti, da Plinio, Strabone e Paolo Diacono – fu un picchio verde (picus) ad accompagnare lo sparuto drappello di Sabini, durante il ver sacrum, al sicuro riconoscimento del locus e alla fondazione della città. Ma, se le origini sono nebulose, risucchiate dal buco nero di uno stanziamento preistorico, ancor di più desta dubbi il toponimo. Silio Italico si sofferma su “as”, derivante da Esio, re dei Pelasgi, popolazioni preelleniche. Studiosi moderni fanno invece leva sull’eschio, ossia l’aesculus hippocastanum, varietà particolarmente diffusa sulle rive del Tronto, dunque con il significato di un crodare estivo di castagne. Qualsiasi siano le etimologie e i callimachei aitia, per Giorgio Manganelli non è nemmeno certo che la città vera e propria, con le sue cento torri e le olive fritte, esista: non possiamo dargli torto. Da Urbino – forse anch’essa è solo un sogno, una visione che ha un inizio preciso, via Puccinotti e lo sfondare la soglia di via Saffi, svanendo definitivamente nella illusorietà della discesa –, da Urbino, dicevo, Ascoli Piceno dura la lunghezza del suo nome: l’andare sulla costa fanese, il discendere a rompicollo l’autostrada – lo svoltare alla curva maestosa di Loreto, nell’aria invitriata di Gentile da Fabriano – e osservare la parete rocciosa di Grottammare, fino alle estremità delle Marche meridionali con il ritorno nel bonnefoiano arrière-pays, l’entroterra.
Nei primi anni Ottanta una rivista ascolana («Marka») invia una proposta a Manganelli: che lo scrittore conceda gentilmente una novella sulle bellezze del centro storico in travertino. Il neoavanguardista non rifiuta, ma non accetta nemmeno. Esiste Ascoli Piceno? (Adelphi, «Biblioteca minima», pp. 43, € 7), pubblicata originariamente dalla medesima casa editrice in La favola pitagorica (a cura di Andrea Cortellessa, 2005) e ora riproposta con dieci cartoline di Tullio Pericoli, è il resoconto di una strenua allucinazione sul senso dei luoghi e dei ricordi: «Gli indizi che indicherebbero l’inesistenza di Ascoli sono tali e tanti, che debbo pormi la domanda: scriverei due o tre cartelle per una nonrivista di una città inesistente? Credo di desiderare da sempre di scrivere su una nonrivista, e di aver dialogo e frequentazione con gente inesistente abitante una città di nulla. […] Una città che aveva un nome scritto quando non esisteva scrittura, e quando la scrittura venne scoperta, in quella città nessuno seppe più leggere, e il nome andò perduto. Una città visitata continuamente dai messaggeri del nulla, angeli che hanno dimenticato il nome del Dio che li inviava…».
Il problema ontometafisico dell’esistenza di Ascoli si intreccia alla promessa di pienezza vivida in ogni posto: l’impegno di esaurire le febbrili aspettative dell’io che cerca compimento e totalità in un ineffabile sfuggente, in una presenza evaporata ma vischiosa, come già visibile in alcuni punti di Centuria (Adelphi, 1995). Il carattere immaginario del capoluogo marchigiano – una «zona periferica», un po’ come l’ombrosa Fortezza Bastiani sorvegliata dal sottotenente Giovanni Drogo o i «luoghi non giurisdizionali» di Caproni –, che si ritira quanto più kafkianamente ci si addentra in esso, è dato dalla potenza occulta del nome e della lontananza, dall’essere in un’assenza piena di figurazioni e fulgide attese. Il limite di Ascoli è il limite stesso del linguaggio e del racconto, l’arte suprema dell’approssimazione, esposta visivamente da Pericoli nelle tinteggiature zigrinate delle sue torri sospese, nel gravare insuperabile dei Sibillini sullo sfondo della città (proprio ad Ascoli dal 23 marzo 2019 al 2 maggio 2019 c’è stata la mostra dedicata al pittore, Forme del paesaggio. 1970-2018, Palazzo dei Capitani, a cura di Claudio Cerritelli). Le «rue», troppo strette per la silhouette dello scrittore milanese, come ricorda burlescamente Pericoli, sono il segno palpabile di una ulteriorità: qualcosa deve ancora accadere, il tempo ultimo non è giunto, basta seguire i vicoli affumicati dall’umidità. Eppure, manca il giusto indirizzo. «In onore di quelle bandiere inesistenti, dei pigri venti che bastano a sommuoverle, non scriverei due o tre cartelle, senza destinatario?». Una chiamata senza risposta, o – manganellianamente – una risposta senza alcuna chiamata.