In margine a “Tempo curvo a Krems”
Tempo di Magris
Conversazione con Claudio Magris: «Sento profondamente la compresenza di presente passato e futuro, di episodi e storie e persone del passato che continuano a vivere in noi, nel nostro presente, proiettandosi insieme a noi, in ognuno di noi, verso il futuro di ognuno di noi»
Candidato da almeno tre lustri al Premio Nobel per la letteratura, Claudio Magris ha da poco compiuto ottant’anni. Germanista di grande respiro – esordì con la rielaborazione della sua tesi di laurea, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna (Einaudi, 1963), a soli ventiquattro anni –, il triestino, in linea con una tecnica compositiva già accordata da Angelo Maria Ripellino, ha saputo mediare la sua vocazione saggistica nel nitore di una vibrante scrittura romanzesca, sul crinale di un difficile (e mirabile) equilibrio tra erudizione, poesia, esigenza narrativa e profondità di pensiero. Il suo nuovo libro, Tempo curvo a Krems (Garzanti, pagine 96, euro 15, uscito poche settimane or sono, proprio mentre a Pistoia riceveva il Premio Leone Piccioni), è un florilegio di racconti incentrati sul rapporto dialettico tra passato e presente, cioè sulla fluvialità eracliteo-parmenidea della sostanza temporale – ritorna ancora il motivo principale di Danubio (Garzanti, 1986), il massimo lavoro di Magris –, che si articola in un’accorta indagine tra realtà e finzione; com’è detto in un punto focale del testo, «le pagine invecchiano come le cose vive: fanno orecchie d’asino, si sgualciscono, avvizziscono».
Nel suo nuovo volume, i protagonisti dei cinque racconti meditano sul senso del tempo. È possibile delineare la presenza di un non-tempo? E in cosa si manifesterebbe?
Credo sia impossibile rispondere a questa domanda; ci vorrebbero pagine e pagine sulle varie conoscenze e/o interpretazioni delle scienze dure, della fisica e pagine ancor più numerose di tanta grande letteratura che si è occupata di questo tema. Io, per quel che mi riguarda, sento profondamente questa compresenza di presente passato e futuro, di episodi e storie e persone del passato che continuano a vivere in noi, nel nostro presente, proiettandosi insieme a noi, in ognuno di noi, verso il futuro di ognuno di noi e anche non rimanendo statiche ma evolvendosi nel nostro pensiero, nel nostro sentimento, nelle cose che veniamo a sapere su di loro o su certi fatti che ci hanno segnato e che continuamente li modificano, li arricchiscono, li mettono in dubbio, li confermano. Ho l’impressione che ognuno di noi viva veramente in un non-tempo. Si ricorda la frase di Cent’anni di solitudine? «Il tempo passa, Aureliano. – Mica tanto». Quando io parlo di una persona, in particolare una persona molto importante per me, che è già andata dall’altra parte ne parlo sempre al presente, così come dico che Dante è un poeta, non che era un poeta, come se non lo fosse più.
In Danubio e in Microcosmi è, invece, posta l’attenzione sui luoghi (viene in mente la descrizione dell’heideggeriana Anterselva). Anche qui, al di là dell’unicità del singolo posto, è possibile avverare uno dei paradossi di Zenone?
Sì, certo, l’attenzione sui luoghi nasce dalla consapevolezza che i luoghi, i luoghi che hanno segnato la nostra vita sono divenuti parte di noi e diventano, come nella celebre brevissima parabola di Borges, il nostro volto. Microcosmi è la storia della vita e della morte di un uomo attraverso il racconto dei luoghi, materiali e soprattutto interiori, attraverso i quali è passato durante la sua vita, lasciandovi parte di sé e facendo proprie parti di loro. Di quest’uomo non si sa nulla ma alla fine si sa molto, credo, perché si sa quello che ha visto, amato, temuto, capito o frainteso. Un po’ come in uno splendido racconto di Jack London in cui la lotta tra i lupi e un alce è raccontata soltanto attraverso le tracce che l’inseguimento e la lotta lasciano nella neve. Ma per carità, Anterselva è tutto meno che heideggeriana! Heidegger, al quale ovviamente va riconosciuta la sua importanza grande nella filosofia del Novecento, non ha mai significato nulla per me, a cominciare dalle sue pseudo etimologie sino a certi atteggiamenti da piccolo borghese filisteo, come quando, da professore, scrive alla sua allieva Hanna Arendt dicendole che sua moglie non lo capisce ecc. ecc. Tutto fuorché originale, originario… è bellissima la sua idea dei “sentieri interrotti” nel bosco e mi piace certo il suo amore del bosco e in particolare di quel bosco della Selva Nera che anche nella mia vita ha contato molto. Il suo limite è stato quello di non capire che, come ognuno di noi abita il bosco che fa parte della sua vita e in questo vi è certo autenticità, così, oltre monti e mari, in paesi che non vedremo mai, altre persone che non conosceremo mai ameranno e amano, con altrettanta autenticità, i loro boschi o le loro città. Heidegger non ha capito che pensare a queste persone che non abbiamo mai visto non è ideologia, ma è senso concreto della vita. Era troppo privo di poesia per poterlo capire perché la poesia è anzitutto la capacità di trasferirsi nell’altro, di sentire l’altro. E poi, quando girava per i suoi boschi nella Tracht, l’abito folcloristico di quelle terre, sembrava, come ha detto giustamente Giuseppe Bevilacqua, uno dei Sette Nani…
I suoi romanzi sono fortemente ibridati dal genere saggistico. Quanto questo tipo di scrittura (il romanzo-saggio) deve alla tradizione mitteleuropea che lei ha analizzato a fondo in qualità di studioso?
Certamente la tradizione mitteleuropea, i Musil, i Broch e tanti altri, mi ha segnato profondamente, ma forse anche l’ho cercata perché quel tema mi era profondamente congeniale. Io credo che il romanzo, che è per definizione una narrazione in qualche modo non dico globale ma vasta, che include tante cose e tanti momenti, a differenza del racconto che può soffermarsi solo per un momento, non può non fare i conti anche con la dimensione saggistica. Anche noi nella vita siamo, nello stesso giorno, narratori se raccontiamo a un amico qualche vicenda che ci è capitata o che è capitata a qualcuno che conosciamo, saggisti se narrando questa storia parliamo non soltanto dell’amore o dell’aspetto fisico di questo amico o di questa amica ma anche delle sue idee, ad esempio se è stato un rivoluzionario di che cosa questa rivoluzione ha significato per lui e per la sua vita e siamo quindi saggisti. E se guardiamo il cielo che si oscura nella sera siamo lirici.
È nota, attraverso gli studi su Joseph Roth, la sua riscoperta del filone ebraico nella letteratura tedesca. La Weltanschauung e, in un certo senso, la partecipazione personale al popolo ebraico ha influenzato la sua opera (questo la accomunerebbe a Montale)?
Certamente la scoperta, per così dire, intendo scoperta mia personale per me, che non provenendo da un ambiente ebraico, è stata fondamentale. È divenuta quasi un mio modo di essere, tant’è vero che Moni Ovadia una volta mi ha detto: «Sai, noi ebrei sappiamo che tu non sei ebreo. Ma ci dà fastidio…». E molti anni fa, ad Eisenstadt, in un convegno sulla letteratura jiddisch, durante una discussione con un rabbino viennese lui mi ha chiesto: «Ma Lei non è ebreo, vero?». Quando gli ho detto che non lo ero, ha alzato le mani come per rassicurarmi: «Era solo una domanda…». Tante cose di questa tradizione – soprattutto dell’ebraismo orientale – mi hanno affascinato. Lo straordinario umorismo capace di affrontare ogni tragedia e di alzarsi ogni volta con una splendida storia da raccontare nonostante tanto dolore. La confidenza irriverente con Dio, proprio per la profonda religiosità, che permette di rivolgersi a Dio con una grande vicinanza e anche di fargli domande indiscrete o di rimproverarlo. L’enorme importanza data al racconto, alle storie (soprattutto nella tradizione chassidica), perché raccontare e ascoltare storie significa trasmettere sentimenti, valori, momenti di vita che altrimenti sarebbero cancellati nell’oblio; far diventare anche nostro qualcosa che è di altri e viceversa.
Quanto, invece, ha agito nel suo pensiero l’identità triestina e in particolare l’eredità di autori come Svevo, Saba e Joyce?
Questa eredità triestina la ho, per così dire, scoperta o almeno sentita quando, a diciotto anni, sono andato a studiare a Torino, altro centro importante, altrettanto importante della mia vita. Certamente l’eredità triestina, l’eredità slataperiana di una identità che non riesce a definirsi ma che trova in questa difficoltà la propria essenza e tante altre cose mi hanno profondamente influenzato. Svevo, in particolare, scrittore geniale che forse come diceva Bazlen non capiva bene ciò che egli stesso stava scoprendo e scrivendo perché era molto più geniale che intelligente, è un muro maestro del mio modo di essere e di sentire. Questo guardare nel nulla e poi fare finta di non averlo visto… Anche Saba, che non ho mai conosciuto personalmente, anche perché in quegli anni che erano i suoi ultimi anni, io avevo una scarsa conoscenza e anche uno scarso interesse, allora, per il mondo letterario triestino e non frequentavo quasi nessuno di questo mondo, tranne Marin, ma per ragioni inizialmente più personali che letterarie. E poi Saba – che credo avesse ragione di dire di aver scritto i più brutti e i più bei versi della poesia italiana del Novecento – è divenuto una pietra miliare della mia vita e tante sue poesie mi hanno accompagnato in momenti fondamentali e non per ragioni letterarie ma per ragioni esistenziali.