Giuseppe Grattacaso
In margine al (bel) film di Jon. S. Baird

Per Stanlio e Ollio

Stanlio e Ollio sono due uomini che hanno perso il filo del procedere, solo perché il filo in fondo non c’è e loro pensavano fosse possibile un’altra strada: per questo le loro concrete astrazioni sono poesia

In una scena particolarmente ispirata del film Stanlio & Ollio, in questi giorni nelle sale, i due attori sono a Londra nella camera di albergo di Oliver, vittima qualche giorno prima di un attacco di cuore. L’incidente è avvenuto proprio nel momento di maggior successo della serie di spettacoli che aveva portato i due popolari comici nel Regno Unito. La tournée è divenuta trionfale pur essendo cominciata qualche settimana prima in sordina, in piccoli teatri di provincia. Babe (è il nome con cui Hardy veniva chiamato dai più intimi) chiede a Stan di tirargli su la coperta perché non riesce a vincere il freddo. Il magro lo fa e poi, vestito com’è, si infila anche lui nel letto, al fianco dell’amico.

Quante volte il letto è stato al centro dei cortometraggi di Laurel e Hardy, quante volte i due hanno tentato di dormire insieme «come due piselli in un baccello»! Ma che ci fanno un grassone e un magrolino nello stesso letto, che è poi il nucleo sentimentale e confortante di ogni casa, se non tentare appunto di farsi caldo, di difendersi dal mondo, di sistemare oggetti e avvenimenti in un ordine rassicurante?

Una pellicola del 1929, They Go Boom (L’espolsione), prende l’avvio appunto con i due protagonisti che stanno dormendo nello stesso letto. Stan russa producendo uno strano sibilo prolungato, Ollie è agitato dai colpi di tosse. Un accesso più violento degli altri farà sollevare rumorosamente la tendina della finestra. È l’inizio di una serie di disastri, che culminano con il tentativo di Ollio di riempire nuovamente d’aria il materasso, che intanto si è afflosciato, attaccandone il tubo alla canna del gas. Per un movimento maldestro, che diventa inevitabilmente un inciampo del destino, il materasso continuerà a gonfiarsi fino ad esplodere in seguito ad un nuovo più forte colpo di tosse.

C’è sempre qualcosa di struggente e di rivoluzionario nelle azioni di Laurel e Hardy, il senso perenne della sconfitta che non diventa mai resa, l’immediatezza della catastrofe che genera sconquasso eppure si accompagna al desiderio, anzi alla nostalgia dell’ordine. Stanlio e Ollio cercano ogni volta di mettere a posto quello che loro stessi hanno contribuito a confondere, di costruire o ricostruire, di ricominciare proprio da quel momento in cui gli oggetti erano immobili e sembravano obbedire ai comandi. Ma i loro movimenti generano altri dissesti, la rincorsa verso una sistemazione disciplinata è disperata. Il mondo non li sostiene e non li protegge, i conti non tornano, gli spazi sono troppo stretti perché non si crei inciampo.

Stanlio e Ollio sono due uomini che hanno perso il filo del procedere, solo perché il filo in fondo non c’è e loro pensavano fosse possibile un’altra strada. Sanno che nessuna sistemazione è davvero attuabile, lo leggiamo negli sguardi, nel movimento delle mani di Stan quando si tocca i capelli, nel frullo delle dita di Oliver intorno alla cravatta, nei loro sorrisi vagamente perplessi, nei gesti sconnessi. Eppure continuano a tentare di dare una sistemazione ordinata, o quantomeno lineare, agli oggetti che hanno intorno. Ma le cose al loro posto proprio non sanno stare, il mondo è di fatto caotico. Non c’è niente di veramente rassicurante nella loro comica disfatta.

Nel cortometraggio The Finishing Touch (Tocco finale) sono due operai alle prese con la costruzione di una casa. Superati una serie di ostacoli, l’edificio è in piedi, il proprietario li paga, ma un uccello si posa sul tetto e una finestra si stacca dal fabbricato. È l’inizio del crollo. Nella patria del trionfo borghese, della home, sweet home, Stan e Ollie ci dicono che tutto può rovinare, raccomandano di guardarsi dai miti dell’opulenza e della stabilità. La loro grandezza è nella grazia sorniona dei movimenti sgangherati, nella gravezza che si risolve in levità e dolcezza, nella risposta garbata alla violenza, nel bon tonche scivola nello scherno. La sintesi di questa sconnessa armonia è nei balli, spesso inseriti nei film, di cui sono protagonisti. È in quei movimenti goffi e buffi il compendio assoluto della leggerezza.

Fa bene, dunque, il regista del film nelle sale, Jon. S. Baird, a ritornare più volte sui loro passi di danza, a chiudere il film con l’ultima esibizione insieme in palcoscenico con Ollie che, malgrado sia provato dalla malattia, vuole a tutti i costi concludere il percorso comune con uno dei loro più celebri balletti. La vita della coppia finisce lì, nella delicata e appesantita evanescenza della loro danza. Straordinari gli interpreti Steve Coogan e John C. Reilly, che aderiscono ai personaggi emotivamente, prima ancora che fisicamente, riproducendo la sapienza artistica del duo anche nelle piccole vicende quotidiane.

Va detto che il film, che è una sorta di adattamento del libro Laurel & Hardy – The British Toursdi A. J. Marriot, lascia intravedere la potenza espressiva di Stan e Ollie solo nel momento del declino, raccontando la loro tournée del 1953 nel Regno Unito e in Irlanda. Un’esperienza difficile e significativa, che li porterà a rendersi conto di come la loro amicizia vada ben oltre le esigenze del set e sia stata alimentata, e non intaccata, dal successo cinematografico. Babe non si riprenderà più dalla malattia che comincia a minarne il fisico proprio nel corso di quelle esibizioni. Morirà, dimagrito di settanta chili, nell’agosto del 1957. Stan gli sopravviverà fino al 1965, continuerà a scrivere copioni per Stanlio e Ollio e non farà più nessuna apparizione in pubblico.

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