Danilo Maestosi
Al Maxxi di Roma

Ombre del terremoto

Le fotografie di Olivo Barbieri, Paola de Pietri e Petra Noordkamp immobilizzano gli spettri di quell'angolo di Centro Italia (in particolare le Marche) offeso dal terremoto di tre anni fa. Ed è un catalogo di dolori e ferite mai curate

Terre in movimento. È il titolo della mostra itinerante che il Maxxi ospita fino al primo settembre nelle sale dell’ala Gianferrari. Seconda tappa di un tour espositivo iniziato ad Ancona per mantener viva la memoria dei danni del terremoto che tre anni fa ha colpito l’area del Monti Sibillini e coinvolto ampi spicchi di tre regioni del Centro Italia: Lazio, Umbria e Marche. E per alimentare attenzione e dibattito sull’opera di ricostruzione e ripristino. Promosso dal soprintendente delle Marche Carlo Pirozzi e rafforzata dal patto di collaborazione con il Maxxi, questo progetto di documentazione e sensibilizzazione ha preso corpo in una ricognizione sul territorio di tre province marchigiane devastato dal sisma. Incarico commissionato senza vincoli d’interpretazione a tre maestri della fotografia: due italiani, Olivo Barbieri e Paola de Pietri e un’olandese, Petra Noordkamp. E poi condensato nelle immagini selezionate per questa mostra.

Un campionario di esercizi di stile di grande fascino visivo. Ognuno degli autori ha declinato il tema tragico del posterremoto in modo diverso e catturato dunque risonanze personali. Olivo Barbieri, fra i tre, è quello che offre il panorama più completo o comunque più articolato, intrecciando tre diversi punti di vista. Ci sono le riprese dall’alto, sorvolando con un elicottero le ferite prodotte dal sisma: prendono davvero alla gola le sequenze del centro di Arquata e di altri borghi vicini ridotti a impasti di macerie quasi illeggibile, cumuli di travi e mattoni tra i declivi delle colline, come un colpo di spugna inferto dalla Natura. Ci sono le inquadrature dal basso: facciate di palazzi ingabbiati dalle transenne o rimasti parzialmente in piedi dopo i crolli, che restituiscono il gioco di prospettive e simmetrie di quelle architetture e consentono ancora di identificarsi con le prospettive rinascimentali che hanno disegnato e reso inconfondibile il paesaggio di questo spicchio di Italia. E poi c’è lo sguardo ravvicinato dal visitatore che ispeziona tesori e cimeli portati in salvo nei depositi e spesso accatastati a casaccio. Palpiti di bellezze maltrattate come quella pala di Madonna che incastona alla base un martirio di San Sebastiano dipinto da Signorelli, e che Barbieri ha voluto ingrandire per mettere in vista i distacchi della pellicola pittorica e gli sfregi sulla tela come rughe impietose. O, in un’altra foto ingrandita, sussulti di sorpresa per la scoperta tra quei mucchi di arredi sacri di una croce su cui al posto del Cristo chissà quale geniale artigiano dell’epoca ha voluto appendere, quasi un profeta dell’arte povera di oggi, gli utensili del martirio, i chiodi, il martello, un frammento di lancia.

Nella rivisitazione di Barbieri la presenza delle persone, le poche rimaste sul posto, è volutamente ignorata. Come in altri suoi lavori, lo sguardo si fa domanda, allontanando dalla scena ogni richiamo puramente emotivo, assegnando anche al colore un tono più neutro perché nella sua cifra d’autore Barbieri sceglie di lavorare in ore in cui la luce ritaglia senza riverberi e chiaroscuri le superfici e gli oggetti.

A reintrodurre le figure umane provvede invece Paola De Pietri, alternando, nella sala che è stata assegnata ai suoi scatti, i primi piani delle macerie a un campionario di ritratti di sfollati che sono rientrati prendendo possesso dei prefabbricati costruiti ai margini delle zone devastate dalla protezione civile. Ma è una presenza quasi fantasmatica: il suo obiettivo si limita a metterli in posa senza indagare emozioni ed espressioni dei corpi e dei volti, isolandoli e ritagliandoli dal buio dello sfondo come apparizioni notturne con l’uso del flash. Ombre impettite e irrisolte contrapposte al bianco calcinoso e polveroso dei muri e dei tetti venuti giù e alle sagome degli oggetti accatastati nei depositi.

Gli spettri delle persone che la furia del terremoto ha costretto all’abbandono delle proprie abitazioni, Petra Nordkamp li evoca invece inseguendo le tracce della loro vita e delle loro abitudini interrotte attraverso un video, che incolla in varie sequenze sovrapposte riprese nelle case svuotate  e si sofferma sui dettagli degli oggetti che i fuggitivi si sono lasciati alle spalle.

A fine mostra ti coglie il dubbio se quel titolo, Terre in movimento, che la battezza, sia davvero calzante, perché la sensazione complessiva sembra invece sigillare una visione di inquietante immobilità, un paesaggio raggelato in una sorta di attesa irreale, una nebbia di istanti sospesi ed estraniazione.

Già, l’attesa. Ma in fondo non è proprio questa distanza dalla cronaca in presa diretta, accentuata magari da qualche filtro estetico di troppo, il modo di mantenersi più fedeli all’evidenza, ai tempi lunghi e incerti, ai problemi del post-terremoto, depurandolo dalla scia immediata e persistente di dolore e di lutto che si trascina appresso e impregna, a volte paralizzandolo, il nostro immaginario di spettatori, per obbligarci ad interrogarci sul futuro di queste terre? «Spingerci ad acquistare consapevolezza – spiega Pippo Ciorra, curatore della mostra – che in questo spicchio montuoso delle Marche nulla potrà tornare più come prima. Che nessun restauro potrà restituire a questi borghi in rovina e ai tesori d’arte di cui erano scrigno una nuova vita, se non si offrono loro condizioni, spinte e progetti in grado di evitarne lo spopolamento, che già prima della sciagura li aveva svuotati , privati d’identità, resi fragili e indifesi».

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