Ascoltato a Santa Cecilia
La sinfonia dell’anima
Questo è per Antonio Pappano l’Ottava Sinfonia di Bruckner che il maestro britannico ha appena diretto a Roma. Un’opera mastodontica che la compagine ceciliana ha eseguito in modo impeccabile. Entusiasmo e ovazioni del pubblico hanno celebrato lo sforzo titanico dell’impresa
Alla fine, era stremato. Perché la partitura, che per un’ora e mezza non lascia respiro, è monumentale. Inchinandosi alle ovazioni di pubblico e orchestra di Santa Cecilia, qualche giorno fa, Antonio Pappano mostrava i segni dell’intenso sforzo di concentrazione. L’Ottava Sinfonia in do minore di Anton Bruckner (1824-1896) è un titolo caro al maestro britannico, che con la compagine ceciliana l’ha diretto più volte in anni recenti, anche in alcune tournées all’estero. L’Ottava è la più ampia tra le sinfonie composte da Bruckner, la summa delle sue idee creative. Per stenderla, il compositore austriaco ha impiegato ben sei anni di strenuo lavoro, dal 1884 fino alle revisioni del 1887, e poi del 1890. Di essa Pappano, alla vigilia dell’esecuzione, ha detto che «… è come una cattedrale, sia da un punto di vista architettonico sia sonoro; ascoltare l’Ottava di Bruckner è un’esperienza religiosa: è un pezzo dalle dimensioni mastodontiche, come gigantesca è l’orchestra. Per me è un’esperienza molto personale, un’esperienza dell’anima».
La vicenda esistenziale e artistica di Anton Bruckner merita un breve cenno, perché nella Vienna musicale di fine Ottocento la sua figura, al di là del suo volere, fu sostenuta dai circoli favorevoli ai linguaggi allora d’avanguardia, diffusi da Liszt e Wagner. Questi, visti come alfieri della musica dell’avvenire, avevano in precedenza propugnato l’uno la musica a programma – ispirata da un’idea, un personaggio, un evento extramusicale – l’altro il dramma musicale, cioè un teatro musicale fondato sull’intima fusione di testo, musica, azione, in uno con una profonda rivoluzione del linguaggio musicale. Sulla sponda opposta, nella Vienna asburgica, si collocavano gli ambienti vicini a Johannes Brahms. Quest’ultimo, interessato alle forme preromantiche ma capace di un idioma sensibile a moderni aggiornamenti, era tuttavia considerato custode della tradizione classica. Etichettature forzose e superficiali entrambe, e soprattutto estranee alle figure dei due compositori, ambedue d’indole riservata, e soprattutto aliena da faziosità e schieramenti.
Probabilmente l’artificiosa contrapposizione derivava anche dalla storia personale di Bruckner. Questi era nato in un piccolo centro dell’Alta Austria, in una famiglia numerosa ma di modeste condizioni, e aveva potuto studiare grazie all’ingresso nell’Abbazia di San Floriano, nella diocesi di Linz. Sommo organista, autore di musica sacra e da camera, e di nove sinfonie (l’ultima incompiuta, priva com’è del finale), Bruckner era profondamente religioso e cattolico. Di animo semplice e ingenuo per le sue stesse origini, di lui gli allievi del Conservatorio di Vienna raccontavano, oltre ovviamente dell’alto magistero, di come la sua fede sincera lo inducesse senza fallo anche in aula di lezione, allo scampanìo del mezzodì, a inginocchiarsi per recitare l’Angelus. Il che dice molto sull’umiltà e sul candore del personaggio, di animo lontanissimo dall’idea di cordate e camarille.
Appassionata, ma limpida, la concertazione studiata da Pappano. E l’orchestra di Santa Cecilia ne ha realizzato le indicazioni come può fare soltanto una grande orchestra. Profonda la tensione che si è creata. Anche nel pubblico, che si è lasciato avvolgere dal lungo racconto, e vi si è abbandonato senza distrarsi, come testimoniava alla fine l’entusiasta, liberatoria onda di applausi. Applausi rivolti specialmente al direttore, oltre che alla compagine e alle sue valorose prime parti. Il che conferma che il messaggio di Pappano ha raggiunto in pieno il bersaglio. La sua bacchetta infatti, già nell’avvio dell’Allegro moderato, fa affiorare dal nulla, in tutta la sua densità, il tenebroso e accorato disegno introduttivo, pervaso da un arcano procedere cromatico. E con nitida evidenza mette in luce via via, nel magma infuocato che ribolle, il dipanarsi dei successivi gruppi tematici scolpiti da Bruckner con la sua scrittura di sapore organistico, per blocchi omogenei.
Potente il dipanarsi della lettura di Pappano nel movimento successivo, lo Scherzo, con un’energia ritmica che ne percorre l’intera architettura, a parte il breve Trio incassato all’interno che, col suo profilo radioso, introduce una parentesi naturalistica, di sapore bucolico. Il terzo episodio della sinfonia, l’Adagio, riequilibra l’accesa temperatura dei primi due movimenti. L’incedere quasi mistico del direttore d’orchestra ristabilisce un clima di raccoglimento, vieppiù addolcito dall’intervento dell’arpa. Il suo colore delicato, etereo, diffonde un’atmosfera iperuranica che sottolinea l’ispirazione religiosa di questa pagina. Ed è altissima la suggestione della chiusa, con il primo violino Roberto González Monjas che declama il suo canto su un sommesso tappeto di tube wagneriane. Il Finale è anch’esso fuori dalle convenzioni formali, specie nelle mani di Pappano, che ne marca in giusta misura il profilo articolato fra slanci di fiera energia e isole di sospensione poetica. Fino a concludere con accento solenne un’interpretazione che si farà ricordare.