Gianni Cerasuolo
La morte del grande campione

Il pianto di Lauda

Ha resistito a uno degli incidenti più terribili della storia della Formula 1 quando sembrava ormai una cosa sola con la macchina. Ma in realtà guidava con il cuore, come quando pianse di paura, in Giappone... Omaggio a Niki Lauda

No, non era un “computer”, Niki Lauda. Il freddo, distaccato viennese che programmava ogni cosa dentro e fuori le piste, secondo la vulgata giornalistica. Era emotivo, Niki, aveva la lingua tagliente e le cose non le mandava a dire. «La Ferrari ha una macchina di merda…» resterà la sua hit, non un giro di valzer, spietata e cruda analisi di un po’ di anni fa. L’avrebbe detto anche oggi di una macchina e di una scuderia incapaci ormai di vincere.

Irriverente anche con Enzo Ferrari, il totem: «Sì, era piacevole aver a che fare con lui, ma a volte era molto dura…» ebbe a dire. «Una volta a tavola litigammo di brutto sull’ingaggio del 1976: “Non ti do una lira in più rispetto all’anno scorso. Un pilota dovrebbe essere contento solo per guidarla una Ferrari”. Gli risposi: voglio 300 mila dollari. Sacramento, parolacce a gogo: poi ci accordammo per 280 mila», è il racconto che fece a Nestore Morosini per il Corriere della Sera. «Mi chiamava ebreo, probabilmente per la mia capacità di contrattare la mia professionalità». Il Drake non gli perdonerà mai il tradimento con la Brabham Alfa Romeo dopo il secondo titolo con la scuderia di Maranello.

Abbiamo tutti cliccato sulle immagini terribili e dai colori sbiaditi dell’incidente del primo di agosto del 1976, dopo aver appreso della morte, a settanta anni, di Lauda. La Ferrari che va a sbattere su una parete di roccia nel Gran Premio di Germania al Nurburgring – era il vecchio circuito che si sviluppava attorno ad un castello – l’auto che si incendia, due macchine che prendono in pieno la vettura dell’austriaco, alcuni piloti che si fermano e cercano di tirare fuori Niki da quella bara che arde. Arturo Merzario gli salva la vita prima tirandolo fuori dalla macchina («la sua fortuna fu che svenne, smettendo di dimenarsi per il fuoco, così riuscii a sganciare la cintura si sicurezza»), poi praticandogli la respirazione bocca a bocca. Merzario rimase male per il fatto che per un po’, il tre volte campione del mondo austriaco non gli disse nemmeno “grazie”. Poi i due divennero amici.

Era hard anche con se stesso, Niki Lauda. Ci ha sbattuto in faccia quel suo volto sfigurato, mangiato dal fuoco, i capelli inceneriti, le orecchie attaccate alla testa. Senza proclami e autocommiserazioni, scene madri. Prendetemi così come sono. Anzi, mi metto in testa anche un cappellino rosso, così vi ficcate bene in mente che cosa sono diventato, non più il bel giovanotto, non sono James Hunt, non ho avuto tutte le sue donne («Quel film di Ron Howard mi attribuisce troppi flirt» brontolava a proposito della pellicola che sei anni fa il regista del Codice da Vinci girò sulla rivalità tra i due piloti: Hunt vinse il mondiale del tragico incidente).

È stato duro con se stesso quando tornò in pista, 42 giorni dopo il gravissimo incidente, a Monza. Le garze ancora insanguinate da ferite che stentavano a rimarginarsi.

È stato un vero uomo, Lauda, quando si è ritirato da quel Gran Premio del Giappone in cui pioveva a dirotto. Lui, il freddo, il glaciale, il “computer”, ebbe paura. Dopo tutto quello che aveva passato. Come Senna, prima di Imola.

I grandi piloti diventano leggenda quando piangono.

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