Periscopio (globale)
Il personaggio Whitman
A duecento anni dalla nascita, rileggere Walt Whitman significa andare alle radici della epopea americana: i suoi versi tenacemente perseguono un principio fondativo che si misura con i classici, più che con i contemporanei
Nel 1932, in un passo del volume Discusión, ripreso poi nel capitolo su Walt Whitman che compare in Otras inquisiciones (Altre inquisizioni), del 1960, Borges aveva commentato, a proposito del poeta, giornalista e soprattutto cantore dell’America dell’Ottocento: «Quasi tutto ciò che è stato scritto su Whitman è falsato da due interminabili errori. Uno è la sommaria identificazione di Whitman, uomo di lettere, con Whitman, eroe semidivino di Leaves of Grass come Don Chisciotte lo è del Don Chisciotte; l’altro, l’insensata adozione dello stile e del vocabolario dei suoi poemi, vale a dire, dello stesso sorprendente fenomeno che si vuol spiegare».
Troppo severo, Borges, con la critica del suo tempo? Forse no, visto che i due “errori”, come li chiama, hanno offuscato per molto tempo la percezione e la disamina dell’opera di Whitman, lasciando che l’energia dei versi stingesse sulla biografia e che si creasse appunto una confusione fra il poeta e il personaggio da lui inventato, il cantore in prima persona che con il poeta non deve però necessariamente coincidere. Il che ha anche del paradossale, visto che l’intento di Whitman era quello di dissolvere l’ego nell’ideale democratico ed ugualitario, non certo di riconfermare un ottocentesco ripiegamento su se stesso e sul poeta quale anima bella.
Va anche detto tuttavia che Leaves of Grass (Foglie d’erba), il capolavoro di Whitman, si presta particolarmente all’equivoco. Anche se ci soffermiamo unicamente sulla prima delle otto edizioni, quella del 1855, e magari solo sul primo, lunghissimo (e per i detrattori interminabile) poema dei dodici raccolti, chiamato in seguito Song of Myself, veniamo immediatamente travolti da una personalità “large and evasive”, come la definiva Harold Bloom, da un’effusione lirica travolgente, oceanica e apparentemente incontrollata, con le sue ripetizioni, i parallelismi, i lunghi elenchi, l’affastellarsi di strumenti retorici, le assonanze e allitterazioni, la nominazione insistita, le ripetizioni, le anafore in serie, il tutto trattenuto (si fa per dire) da un verso libero le cui dimensioni non sembrano rispondere ad alcuna regola, se non a quella del ritmo interno al ragionamento. Anche se, come diceva Henry D. Thoreau all’inizio di Walden tanto per sgombrare il campo da ogni equivoco, “dopo tutto, è sempre la prima persona che parla,” l’Io di Whitman è un Io plurale, accogliente, onnicomprensivo, che intende racchiudere la personalità di ciascuno.
Quello che all’epoca è stato un coraggioso e vitalistico esperimento, e che magari oggi ci sembra didascalico, retorico, traboccante, spesso declamatorio (elementi che però ritroveremo quasi inalterati in tanta poesia americana del Novecento, a cominciare da quella della beat generation), dovette colpire il lettore come una frustata. È come se Whitman saltasse ogni mediazione e si ricollegasse direttamente alle sue letture giovanili, epiche e grandiose (da Omero a Goethe, da Dante a Shakespeare a Walter Scott, per non parlare del modello biblico), l’eco delle quali in effetti si avverte fin dalla prima uscita del libro di cui parliamo, ma anche, se non ancora di più, nelle opere successive. Con mirabile sintesi Mario Praz ci dà la misura di quella che dev’essere stata la situazione: «…la poesia americana ripeteva meccanicamente e fiaccamente certi schemi metrici di cui il romanticismo europeo aveva già esaurito tutte le possibilità; […Whitman] presto li scartò come “feudali” e, con ardimento che solo il Nuovo Mondo e un’anima nuova e incolta poteva concepire, […] deliberò che da lui datava la moderna poesia».
L’ambizione di Whitman, nell’allontanarsi dalla tradizione dell’English Verse, era del resto dichiarata: «Stop this day and night with me and you shall possess the origin of all poems, / You shall possess the good of the earth and sun…» [“Resta quest’oggi e stanotte con me e possederai l’origine d’ogni poesia, / Possederai il bene della terra e del sole…” – utilizzo qui e in seguito la traduzione di Alessandro Ceni]. Si trattava di dar conto, come scrive esplicitamente, dei pensieri, delle intenzioni e delle azioni di tutti gli uomini di ogni epoca e paese, di racchiudere in un componimento poetico sufficientemente destrutturato e aperto a un linguaggio colloquiale tutto e il contrario di tutto, il mondo come immensa enciclopedia, la realtà e quelle che ai nostri giorni chiameremmo le alternative virtuali ad essa. Nel suo discorso non v’è spazio per tecnicismi che ostacolerebbero il dettato poetico, e la stessa distinzione fra verso e prosa diventa pretestuosa e inutile. Tutto vi è grandioso, giorno e notte, giovinezza e vecchiaia, ricchezza e povertà, salute e malattia, vittorie e sconfitte, espressione e silenzio; non c’è esclusione, come non c’è preferenza per l’uno o l’altro aspetto; e tutto vi è grandioso semplicemente perché tutto appartiene all’uomo.
Oggi, nel celebrare il bicentenario della nascita di Whitman, poeta, giornalista, seguace del filosofo Ralph Waldo Emerson – che dalle Foglie d’erba sarà letteralmente folgorato – e vicino a Thoreau, non foss’altro che per il rapporto con la natura e l’orientamento filosofico generale, non possiamo non riconoscergli, al di là della riuscita di questo o quel poema, una visione d’insieme produttiva, una potenza disadorna e anticonvenzionale, una freschezza a volte ingenua e poco sorvegliata da cui sarebbe comunque germogliata un’intera progenie di poeti e scrittori, in omaggio a quella “fullest poetical nature” che nella prefazione al primo libro (poi soppressa nelle sette edizioni successive) Whitman riconosce e rivendica per il suo paese-continente. A una nuova nazione, insomma, e ancor più se si tratta di una “nazione di nazioni” deve corrispondere una nuova letteratura, a livello visivo e ancor più recitativo.
Fa una certa impressione constatare come le due opere che avrebbero dato una prima immagine forte e incisiva della letteratura statunitense, per contrasto rispetto a quella europea, escano a pochi mesi l’una dall’altra; nel 1855, come abbiamo detto, Leaves of Grass – nel giorno dell’Indipendenza americana! – e appena un anno prima, nel 1854, Walden di quel Thoreau che nel riferirsi a sua volta alla corrente filosofica e morale dei trascendentalisti ritiene con Emerson che “il divino sia in noi” e che alla verità o armonia fra noi e l’universo si acceda attraverso la rivelazione interiore, di cui la scrittura (coinvolgente poesia in Whitman, relazione affascinante sulla vita solitaria nei boschi in Thoreau) si fa strumento privilegiato. La capanna sul lago Walden diventa così per Thoreau il centro del mondo e i due anni di eremitaggio nella stessa l’occasione per riscoprire un rapporto intimo con la natura e correggere i tanti errori di cui la civiltà materialistica si è macchiata. Per Thoreau occorre tracciare quindi una strada alternativa che consenta di ritornare al dinamismo e all’idealismo dell’età dei pionieri.
In Whitman questi elementi si caricano di una sorta di misticismo eroico, che lo porta a voler affrontare, nei suoi versi, tutto, ogni aspetto della vita umana, toccando anche argomenti all’epoca ancora sottoposti a una preventiva e feroce censura, come il sesso, e non solo quello etero. (Del resto, a proposito della presunta, mai del tutto comprovata né esclusa omosessualità, che Whitman da parte sua negava, ma senza troppa convinzione, con malizia Praz chiosa: «D’altronde nessuno mai sostenne di esser suo figlio o suo nipote, anche dopo che egli fu morto e famoso».) Protagonisti del suo mondo sono sempre e comunque le persone comuni, nei confronti delle quali Whitman mostra costantemente comprensione e partecipazione, convinto com’era che la salvezza venisse dalle masse e dalla loro adesione democratica al bene collettivo: è il loro spirito che deve svilupparsi liberamente, senza le pastoie di ideologie preconfezionate.
La crudeltà delle circostanze storiche, peraltro, non lascia Whitman indifferente: negli anni della maturità, anzi, sarà fortemente colpito dalle conseguenze della guerra di secessione americana che ha inizio nel 1861. A quel periodo difficile risale la famosa ode O Captain!, My Captain! e l’elegia When Lilacs last in the Dooryard Bloom’d, dedicate entrambe a un presidente, Lincoln, assassinato nell’aprile del 1865, ma soprattutto una presa di coscienza diretta della situazione dei feriti al fronte, per i quali s’impegnerà in prima persona. Questa nuova consapevolezza sarà distillata nelle edizioni successive di Leaves of Grass e nelle altre opere degli anni 1870-80 e permeerà di sé la sua concezione del trapasso all’insegna della continuità con la vita, così come il parallelismo o identificazione fra l’erba che copre le tombe e le foglie d’erba del suo titolo. La morte, che lo coglie nel 1892, a settantatré anni, per Whitman non sarà dunque che parte inalienabile e irrinunciabile della vita, da interpretarsi quale nuova rinascita nell’oltretomba; non l’aveva forse già previsto, sempre nel Song of Myself, quasi cinquant’anni prima, quando scriveva: «Has any one supposed it lucky to be born? / I hasten to inform him or her it is just as lucky to die, and I know it» [“C’è chi suppone fausto sia nascere? / M’affretto ad informare costui o costei che è altrettanto fausto morire, e io lo so”]. Naturalmente non poteva saperlo, ma al tempo stesso lo sapeva; così come tutto, e sempre, intuiscono (o forse davvero sanno) i veri poeti, gli immortali.