Un romanzo di Cristiana Vettori
Il mistero del Fauno
Durante la seconda guerra mondiale una pregevole maschera attribuita al giovane Michelangelo sparì dal castello di Poppi e non fu mai più ritrovata. La sua esistenza - tra storia e finzione - si intreccia a quella della protagonista negli stessi luoghi in cui si svolge la narrazione
Un’atmosfera indeterminata avvolge il romanzo di Cristiana Vettori, Il fauno scomparso (Ed. Elicon, 197 pagine, 14 euro), la stessa di certi giorni di primavera che si vorrebbero senza fine, ma che se davvero lo fossero, rimarrebbero appannati da una lieve ombra di sazietà. Forse il presentimento di una felicità irrealizzabile, il desiderio mai spento di tutto ciò che è buono, chiaro, onesto. Tutto questo è nelle pagine dell’autrice, lente, scorrevoli, intessute di dialoghi leggeri, di monologhi brevi, di notizie storiche avvincenti anche se lontane, come appunto quella della misteriosa Maschera di Fauno, forse opera giovanile di Michelangelo, che conosceva bene i luoghi dove si svolge questa narrazione.
Questa piccola scultura, di cui è nota l’immagine, sembra più che un fauno, creatura mitologica positiva presente anche nella letteratura per ragazzi (basti pensare a Le Cronache di Narnia di C.S. Lewis), un satiro dal sorriso beffardo e un po’ bieco. Durante la seconda guerra mondiale questa pregevole maschera sparì dal castello di Poppi e nessuno sa che fine abbia fatto. Ci sono varie ipotesi tra cui quella che sia conservata all’interno del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. «Altri invece ritengono che sia stata depositata nel caveau di una banca svizzera da qualche gerarca nazista e si trovi ancora là». Comunque sia non è stata più ritrovata e la sua esistenza si intreccia alla storia della giovane protagonista, Emma, quando incontra Peter, un giovane tedesco, proprio a Poppi. Sarà lui a ricordarle il drammatico passaggio della guerra nel paese soprattutto nell’estate e nell’autunno del 1944. I tedeschi nella ritirata uccisero tante persone innocenti, terribile fu la strage di Vallucciole. «E nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1944 i genieri della Wehrmact avevano fatto saltare con le mine la parte sud del paese di Poppi: era sopravvissuta giusto la porta Santi di Cascese, che allora si chiamava Porta a Fronzola».
Le vicende della giovane donna si svolgono in parte anche a Pisa, dove vive con il suo compagno Alfio, «l’amore più recente della sua vita» che si sta lentamente esaurendo. «Niente di meglio dunque – dice Emma che racconta in prima persona – che prendere un po’ le distanze per andare a rigenerarsi sotto un altro cielo. Ed era un cielo familiare: quello di Poppi». Anche se manca una concezione esistenziale compiuta, un senso profondo percorre queste pagine in cui lo scorrere dei giorni sembra fluttuare e perdersi in una miriade di attimi staccati l’uno dall’altro, frammenti evanescenti che lasciano un sapore di pianto. Niente di romanticamente nebuloso, solo la descrizione della fragile arbitrarietà di un sentimento istantaneo, di uno stato d’animo passeggero. E soprattutto l’incombere della storia passata, lontana ma in qualche modo da non dimenticare. Già, il famoso “qui e ora”. Che significato aveva per Emma? Era l’ennesimo schermo di una persona incapace di sostenere l’ingiuria della realtà? Ma l’ansia è sempre in qualche modo controllata nella forma di un distacco sereno e consapevole al di là delle proprie vicende personali e quello che balza in primo piano è la prospettiva storica. Il passato che mai deve essere dimenticato, soprattutto perché non si ripresenti nel suo volto peggiore come un incubo.