In margine al Salone del Libro di Torino
Il gioco di Cortázar
La tradizionale kermesse editoriale, quest'anno, è dedicata a “Il gioco del mondo” con un chiaro riferimento al celebre romanzo di Julio Cortázar. Che cosa significa questo omaggio al genio dell'enigma letterario?
Titolo della 32° edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino è Il gioco del mondo, chiaro omaggio a Julio Cortázar e al suo romanzo più noto, Rayuela. Infatti, uno dei percorsi che informeranno i numerosi eventi previsti dal 9 al 13 maggio al Lingotto è legato allo spagnolo, “lingua ospite”, con esplicito riferimento alle letterature e agli autori di lingua ispanica. Naturalmente, non mancano gli spunti di riflessione a proposito dell’autore argentino che ha regalato questo suggestivo titolo all’edizione 2019 del Salone: dall’attore Fabrizio Gifuni che darà voce e presenza ad alcuni passaggi provenienti dall’opera di Cortázar e di Bolaño (Un certo Julio. Omaggio a Julio Cortázar e Roberto Bolaño, giovedì 9 Maggio, ore 18:00, Sala Oro) sino all’imperdibile appuntamento con Ernesto Franco, curatore e traduttore di numerose opere di Julio Cortázar per la casa editrice Einaudi, che presenterà il suo intervento «Il sentimento del non esserci del tutto» (domenica 12 maggio, ore 15.30, Plaza de los lectores).
Ma, tornando al grande romanzo che quest’anno presterà il nome al Salone, cosa ha rappresentato e cosa rappresenta oggi un libro come Rayuela? Nel 1963, quando uscì, lasciò la critica disorientata. In precedenza, i tentativi di scardinare la linearità della forma romanzo non erano mancati, ma nessuno era riuscito a creare ciò che Cortázar portò tra le mani dei lettori: un libro-gioco, un libro-esperienza, un libro-labirinto. Il gioco del mondo è soltanto una delle possibili traduzioni della parola argentina rayuela: altri chiamerebbero lo stesso semplice gioco di strada campana, inferno, settimana, paradiso. Ogni Paese, e spesso ogni regione all’interno di uno stesso Paese, ha un nome diverso per questo semplice divertimento basato su un percorso composto da caselle (in numero variabile da sette a dieci), tracciate col gesso su una qualsiasi superficie piana, che si imbocca saltellando su un piede dopo aver tirato un piccolo sasso nella prima casella e poi in tutte le altre a seguire.
«Il gioco del mondo si fa con una pietruzza che si deve spingere con la punta del piede. Ingredienti: un marciapiedi, una pietruzza, una scarpa, e un bel disegno con il gesso, preferibilmente colorato. In alto è il Cielo, sotto la Terra, è molto difficile arrivare con la pietruzza al Cielo, quasi sempre si calcola male e la pietruzza esce dal tracciato. A poco a poco però, si acquista l’abilità necessaria per conquistare ciascuna delle caselle (mondo a chiocciola, mondo rettangolare o mondo fantasia, poco usato) e un bel giorno s’impara ad uscire dalla Terra e a far risalire la pietruzza fino al Cielo, fino a entrare nel Cielo […], il guaio è che proprio a questo punto, quando quasi nessuno si è mostrato capace di far risalire la pietruzza fino al Cielo, termina d’un tratto l’infanzia e si cade nei romanzi, nell’angoscia per il razzo divino, nella speculazione a proposito di un altro Cielo al quale bisogna imparare ad arrivare. E perché si è usciti dall’infanzia […] si dimentica che per arrivare al Cielo occorrono, come ingredienti, una pietruzza e la punta di una scarpa» (Julio Cortázar, Il gioco del mondo, trad. it. di Flaviarosa Nicoletti Rossini, Einaudi, 2004).
Quando Cortázar chiamò il suo romanzo Rayuela (il titolo originario era Mandala) lo fece con esplicito riferimento all’approccio ludico con cui egli pensava il fare e il fruire letterario, a una libertà di lettura e interpretazione dell’opera da parte di un “lettore-giocatore” resa possibile e amplificata dall’apertura – tanto a livello semantico quanto strutturale – consegnata al testo dall’autore. Ogni volta che il lettore si accosta a questo particolare romanzo “accende” la «macchina pigra» del testo facendola funzionare come moltiplicatore di senso, tracciando la propria rotta tra riferimenti emotivi, letterari, filosofici. Non solo, può addirittura scegliere in che modo “riscrivere” il romanzo, come legare i capitoli tra loro, se seguire il tablero de dirección suggerito dall’autore o costruire un proprio personale cammino di conoscenza, una propria rete di rimandi e analogie, sovrapponendo questa ricerca a quella del protagonista del libro, Oliveira, uomo in bilico tra due mondi, cercatore per eccellenza, eroe che ricorda i grandi ribelli dostoevskijani e la cui quest è animata dall’opposizione nei confronti del dominio incontrastato di una «razón razonante».
E il labirinto che Cortázar delinea in Rayuela passa attraverso le vie di Parigi, si snoda sino a Buenos Aires, possiede un Centro che (forse) si situa nel tendone di un circo, nei sotterranei di un manicomio o che è possibile rintracciare nell’opera dello scrittore Morelli, è un labirinto terreno e contemporaneamente metafisico che scuote il lettore, conducendolo a tremare e a sorridere, colmandogli l’anima di quesiti sul proprio rapporto con l’esistente.
Per Cortázar, come per Huizinga, l’uomo – e l’artista più di tutti – è anzitutto homo ludens, ragion per cui nella visione estetica dell’autore argentino il gioco ha un ruolo fondamentale: cerimoniale che costruisce un ordine nel disordine, inserzione del razionale nell’irrazionale, la rayuela, come quasi tutti i giochi infantili, possiede remote origini mistiche e religiose. Pare infatti che il sasso lanciato rappresentasse l’anima mentre nel percorso attraverso le caselle sino all’ultima, sino al Cielo appunto, siano individuabili con tutta probabilità le tracce di un viaggio verso l’oltretomba, verso una dimensione altra. In questo senso la rayuela è speculare proiezione del labirinto a chiocciola (quello minoico), del mandala e di altri percorsi iniziatici. L’ultima casella coincide con quel concetto di Centro che ritorna spesso nelle parole di Oliveira.
Un centro, un punto d’arrivo, un Cielo che è insieme manifesto letterario e dimensione ontologica e il cui raggiungimento per Cortázar era conseguibile anzitutto grazie a quella professione di libertà intellettuale che animò tutta la sua esistenza. Una meta che è anche privilegiato punto d’osservazione sul mondo e dalla quale diviene possibile coglierne aspetti inediti, “interstiziali”, abbracciando il reale con occhi nuovi, usando come potenti strumenti l’intuito, l’immaginazione. Per questo straordinario scrittore la realtà era costruzione umana, un mondo da riscrivere andando al di là delle categorie con cui siamo soliti decodificarlo, ripensandone il linguaggio e, forse, mettendosi nei panni di un cercatore come Oliveira, di colui che in virtù della propria rinuncia alle dicotomie che mortificano una comprensione prodonda del tessuto dell’esistente si colloca «al margine della specie».
«A dieci anni, in una sera di zii pontificanti sermoni storico-politici all’ombra di alcuni paradisi, aveva manifestato timidamente la sua prima reazione nei confronti del tanto ispanoitaloargentino «Glielo dico io!», accompagnato da un sonoro pugno ad uso d’iraconda ratificazione. Glielo dico io! Glielo dico io, cazzo! Quell’io, era riuscito a pensare Oliveira, quale valore probatorio aveva? L’io dei grandi, quale onniscienza evocava? A quindici anni si era accorto del «so soltanto che non so niente»; la cicuta concomitante gli era sembrata inevitabile, non si sfida a questo modo la gente, glielo dico io. Più tardi lo divertì comprovare in qual modo nelle forme superiori di cultura il peso dell’autorità e delle influenze, la fiducia nata dalle buone letture e dall’intelligenza, producano anch’esse il loro «glielo dico io», sottilmente dissimulato, anche per colui che lo proferiva: adesso subentravano i «ho sempre creduto che», «se di qualcosa sono certo è», «è evidente che», quasi mai compensati dalla valutazione spassionata del punto di vista opposto. Come se la specie vegliasse sull’individuo per non lasciarlo avanzare troppo nella via della tolleranza, del dubbio intelligente, della fluttuazione sentimentale. In un punto dato spuntava il callo, la sclerosi, la definizione: o nero o bianco, radicale o conservatore, omosessuale o eterosessuale, figurativo o astratto, la squadra San Lorenzo o quella di Boca Juniors, carne o verdura, affari o poesia. Ed era giusto, perché la specie non poteva fidarsi di individui come Oliveira […]». (Julio Cortázar, Il gioco del mondo, trad. it. di Flaviarosa Nicoletti Rossini, Einaudi, 2004).
Forse, pensare oggi a Rayuela, all’incredibile romanzo di quel grandissimo cronopio che fu Cortázar, significa proprio questo: esercitarsi a “riscrivere” il reale con spirito critico e con tutta la fantasia di cui siamo capaci, liberarsi dalla tentazione di incasellare ciò che ci circonda in facili categorie pronte all’uso, non cedere agli irriggidimenti intellettuali e costruire un nostro personale percorso attraverso il labirinto-gioco dello scibilie, della vita, del mondo.