Visto al Teatro Argentina di Roma
I due volti del potere
Sulla scena romana due originali riscritture in chiave contemporanea dei capolavori shakespeariani che riflettono sulle conseguenze del potere: “Tito Andronico” e “Giulio Cesare”. I testi sono a firma, rispettivamente, di Michele Santeramo e Fabrizio Sinisi, le regie di Gabriele Russo e Andrea De Rosa, la produzione del Teatro Bellini di Napoli
Come convivere con il potere nelle sue forme più estreme, dittatoriali e sanguinarie, severe ma giuste? Con l’arte sapiente dell’ironia (Tito Andronico) oppure con la fermezza morale (Giulio Cesare)? Il progetto presentato da Gabriele Russo al Glob(e)al Shakespeare nel 2017 e premiato dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro come miglior progetto speciale porta in scena due facce della stessa, terribile, medaglia del Potere.
LUCA ZIPOLI | Dramma ambientato in un tardo impero romano di finzione, Tito Andronico è la prima tragedia scritta da William Shakespeare. Una revenge play costruita sulle vendette reciproche che i personaggi si infliggono: se il protagonista, ferito dalla morte dei suoi figli in battaglia, decide di vendicarsi su Tamora, la regina dei Goti sconfitta, uccidendone il figlio innocente, questa sceglie di contraccambiare facendo violentare e mutilare la figlia di lui, la vergine Lavinia, da parte dei suoi figliastri, primi figli dell’imperatore Saturnino. Da parte loro, i figli di Tito, sdegnati per essere stati esclusi dal potere, reagiscono giurando morte al perfido macchinatore dei delitti, il barbaro Aronne, amante della regina Tamora. Caratterizzata da un’atmosfera luciferina, in cui primeggiano il sangue e le violenze esplicite, più che rifarsi ai modelli senecani il Tito sembra anticipare il genere splatter del cinema hollywodiano. Difficile prendere sul serio tanta compiaciuta esibizione di orrori da parte di Shakespeare, e non a caso l’opera è apparsa a molti una parodia del teatro macabro elisabettiano, un gioco provocatorio genialmente condotto dal Bardo proprio sulla soglia della sua produzione. Proverbiale è rimasto il giudizio che ne diede il grande critico americano Harold Bloom: «ho l’impressione che il dramma non possa essere rappresentato se non come parodia». Di questo stesso parere sembra essere anche Michele Santeramo, che nella sua riscrittura sfoltisce radicalmente il testo e ne dà una piega ironica per sgonfiare la sua drammaticità eccessiva, oggi francamente irricevibile. L’escamotage individuato in questa produzione è il classico meta-teatro, utile a far percepire la pièce come un’operazione di secondo grado. Tito, interpretato da Fabrizio Ferracane, è un uomo sfibrato, che si è stancato di recitare la sua parte, e che più che prendere l’azione preferisce stare in poltrona a leggere e ascoltare la musica. Lavinia (Francesca Piroi) si ribella al mutismo imposto al suo personaggio con l’orribile taglio della lingua, e prende parola per proclamare una sua identità diversa rispetto a quella prevista nel testo. Nella sua regia, Gabriele Russo appare abile nell’intrecciare il piano della realtà e quello della finzione, e il risultato è che nei 60 minuti di spettacolo il pubblico il più delle volte ride, dando ragione di quell’effetto implicitamente comico che lo stesso Shakespeare ricercava con questo dramma parossistico e improbabile. Molto interessanti, infine, le scelte musicali, che uniscono brani classici e contemporanei, dall’Allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven, su cui si apre la prima scena, a un brano del gruppo musicale pop Antony and the Johnsons, da un pezzo strumentale del compositore giapponese Shigeru Umbebayashi, a un corale di Bach in chiusura.
ALESSANDRA PRATESI | L’azione del Giulio Cesare inizia ad assassinio già avvenuto; Cesare è ormai una salma inerte al centro del palcoscenico. La battaglia di Filippi è raccontata sotto forma di cronaca radiofonica e a tratti come numero di intrattenimento nei villaggi turistici. Ottima l’interpretazione, affidata quasi interamente alla voce, degli attori nel ruolo dei congiurati – Andrea Sorrentino (Bruto), Nicola Ciaffoni (Casca), Daniele Russo (Cassio) – pur risultando di intensità monocorde, in perfetta sintonia con l’atmosfera del resto dello spettacolo. Si distingue in particolare Rosario Tedesco, nel ruolo di Antonio, l’unico personaggio che guarda alla ricostruzione dello stato dopo la morte di Cesare, l’unico a spalare la terra per coprire la salma martoriata del leader. E l’unico cui il regista affida due voci: quella seria e drammatica della tragedia e quella cinica e sprezzante della satira intelligente. Stessa scenografia tetra, metallica, essenziale. Stessa volontà di ragionare sul potere e sulle sue conseguenze. Stesso progetto di appartenenza. Eppure il Giulio Cesare di Andrea De Rosa non ha l’incisività, esilarante e coinvolgente, del Tito. Secondo l’intenzione del regista, pienamente riflessa nella riscrittura di Fabrizio Sinisi, protagonista assoluto è il tema politico universale del dramma shakespeariano, ovvero l’interrogazione sulla liceità del tirannicidio (come indica il sottotitolo Uccidere il tiranno posto a monito). Anche i costumi (di Chiara Aversano) sono funzionali al riferimento storico e politico: pantaloni alla zuava, anfibi e moschetti Balilla richiamano il Novecento dei totalitarismi. Tuttavia in questo procedimento di astrazione, il testo perde ogni tensione drammatica. L’effetto finale è quello della lettura teatrale di un saggio moralistico costruito per successione serrata di monologhi, flashback e apologie.