Al Palazzo Reale di Milano
L’Europa di Ingres
C'è una interessante idea d'Europa (e di commistione di linguaggi artistici) nella pittura di Jean-Auguste-Dominique Ingres. Da Raffaello a Picasso, da Napoleone all'Unione: tutti i motivi per non perdere questa grande mostra
Ci sono anche motivi “politici” che rendono opportuno visitare la mostra Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone, fino al 23 giugno al Palazzo Reale di Milano. Perché la parabola dell’allievo di David e dell’imperatore còrso presenti insieme in Italia – che, pur conquistata, fa da autorevole cassa di risonanza al progetto del Bonaparte – è funzionale a un’idea grandiosa e unitaria dell’Europa. Avviata sulla strada di una modernità globale – società e arti, urbanistica e amministrazione della cosa pubblica – che non consentirà alla Restaurazione di durare e di riportare davvero indietro le Nazioni. È una riflessione da fare, nelle sale di Palazzo Reale che espongono 150 opere – provenienti in gran parte dalla Francia (Louvre, Musée d’Orsay e del Petit Palais di Parigi, Musée Ingres di Montauban), ma anche da New York (Metropolitan) e Londra (Victoria and Albert Museum) oltre ovviamente da Milano (Pinacoteca di Brera e Galleria d’Arte Moderna di Milano) – a ridosso delle elezioni europee di fine maggio, in attesa delle quali tuonano i populismi e i nazionalismi anti Unione.
Un altro evento ha rilanciato e riempito di ulteriore significato la rassegna meneghina, inaugurata a marzo: il rogo di Notre Dame, il tempio identitario dei francesi nel quale però, sull’onda dell’emozione per l’incendio, l’Europa colta e il mondo intero si sono riconosciuti. Nella cattedrale di Parigi il 2 dicembre del 1804 Napoleone si incoronò imperatore dei Francesi. Un evento fermato sulla tela da Jean Louis David, il maestro di Ingres. Un anno dopo circa, il 26 maggio 1805, il Grande Còrso si proclamò Re d’Italia nel Duomo di Milano, cingendo la Corona Ferrea e vedendosi immortalato tra gli altri dal nostro Andrea Appiani. Ebbene, a sostegno del rifacimento di quanto distrutto in Notre Dame, arriverà anche l’esposizione a Palazzo Reale: per ogni biglietto venduto un euro andrà alla Cattedrale di Parigi, ha stabilito Civita alla quale si deve l’organizzazione della mostra, che gode del patrocinio dell’Ambasciata di Francia, a suggello della collaborazione tra i due Paesi, e nonostante le polemiche anti-Macron suscitate dal governo gialloverde.
Del resto, il carismatico edificio, sede dei poteri forti a partire dai Visconti e dagli Sforza, prese appunto il nome di Palazzo Reale con l’avvento del napoleonico Regno d’Italia. Dunque mai contenitore e contenuto di una mostra furono più funzionali l’un l’altro. E veniamo appunto al contenuto. Le sale squadernano non solo opere di Ingres ma, come dice il titolo, della vita artistica tra 1780 e 1820. È l’epoca del Neoclassicismo, si dirà subito. Ma la rassegna – con le vibrazioni provenienti dai lavori firmati da David e Gérard, da Greuze, Prod’hon, Anne-Luis Girodet e, per dire degli italiani, da Canova, Appiani, Rosaspina – sgombra il campo dalla vulgata di una corrente artistica fredda e antimoderna, tesa al recupero pedissequo dell’antico. E valga a diradare la confusione il motto di Marc Fumaroli relativo alla “modernità paradossale del neoclassicismo”.
Eccolo allora il disinibito dualismo di Ingres, nella piena corrente di un nuovo linguaggio figurativo tra Ancient Régime e Rivoluzione Francese che si configura spesso come preromanticismo. In molti hanno definito colui che diventerà, a Roma, direttore dell’Accademia di Francia, l’erede di Raffaello e il precursore di Picasso. E infatti la citazione del Sanzio è esplicita nella copia dell’Autoritratto di Raffaello, che Ingres realizza tra il 1820 e il 1824, quasi in contemporanea con un ispirato “Gesù consegna le chiavi a San Pietro”. Ma poi “Raffaello e la Fornarina”, dipinto vent’anni dopo, conferisce alla bella romana la stessa sinuosità delle sue celeberrime Odalische. Le quali, vedi la Grande Odalisca prestata dal Louvre, già s’esercitano su torsioni del corpo nudo che piaceranno al Picasso della scomposizione cubista. Il quale Picasso con la serie delle Bagnanti sente l’eco dei corpi femminili indagati in decine di pose nel suggestivo “Bagno turco” del francese, dove tuttavia in primo piano campeggia la testa di una donna avvolta da un telo che è una summa dei volumi e della luce raffaelleschi. Contrasti e paralleli, nelle opere esposte. “Il sogno di Ossian” ha i colori cupi e l’atmosfera misteriosa del romanticismo più lugubre. Il commissionato “Napoleone I sul trono imperiale”, 1806, opera appunto programmatica nel tratteggiare il carisma del conquistatore e del regnante, è “un’icona fredda, ieratica e polisemica” nella quale il pittore assembla Giove in trono, i Cesari romani e bizantini ma nella frontalità solenne e nel pallore del volto è “l’allegoria di un assolutismo rigenerato”, scrivono le curatrici della mostra Stéphane Guégan e Florence Viguier-Dutheil nel bel catalogo edito da Marsilio. Altro spirito nella sequenza dei vividi ritratti, che comprendono anche Gioacchino e Carolina Murat. E qui si squaderna la società milanese del primo Ottocento, dove si fanno largo le pittrici, che ora hanno successo sulla scia di un’idea moderna e democratica del mondo artistico. E mentre Stendhal celebra l’ingresso dell’esercito francese a Milano nell’incipit della “Certosa di Parma”, il grande collezionista meneghino Giovanni Battista Sommariva si fa strada nelle istituzioni e nella politica e intanto riunisce opere di Canova e di Prud’hon, per dire di due esponenti di spicco della liaison Italia-Francia. Proprio Prud’hon ne fa un ritratto-omaggio: egli, azzimato e affabile, è sullo sfondo di due sculture dell’autore della “Paolina Borghese”. Una napoleonica Venere Vincitrice.