Cartolina dall'America
Incubo democratico
Bernie Sanders e Joe Biden continuano a farsi la guerra: a un anno e mezzo dalle elezioni per la Casa Bianca, i democratici non riescono a trovare ragioni di concretezza e unità per fronteggiare il mostro di Trump
Con il 56% di consensi sulla gestione dell’economia, Trump esce dall’ultimo scandalo sul Russiagate certamente vincente. La speranza dei democratici che l’investigazione di Mueller sulle interferenze della Russia di Putin ai danni di Hillary Clinton durante le presidenziali del 2016 potesse provare l’implicazione di Trump in uno scandalo di portata gravissima (al pari se non più grave di quello di Watergate), è andata invece in fumo. Adesso, dunque, l’attenzione si concentra su quella che viene definita, con un termine improprio, ma ormai comune in politica, la narrativa dello scandalo che riguarda come il Ministro della Giustizia (The Attorney General) William Barr abbia riassunto il rapporto Mueller. Sebbene non ci sia disaccordo sulle conclusioni dell’investigazione che non ha trovato prove di un vero e proprio complotto giustificando un’azione penale nei confronti di Trump, sono stati minimizzati i casi di intralcio alla giustizia. Il ministro a tratti sembra aver agito e parlato più come l’avvocato di Trump che come un imparziale servitore dello Stato come il suo ruolo richiederebbe. Tanto che Mueller in una lettera successiva ha puntualizzato che il rapporto non è stato reso nella sua interezza e complessità. I democratici, per bocca della speaker della House of Representatives, Nancy Pelosi, si sono fatti portavoce di questo malcontento chiedendo a Barr di testimoniare di nuovo per fare completa luce sulla versione unredacted (non censurata) del rapporto Mueller, ma Barr ad oggi non si e presentato. E si parla al proposito di richiesta di dimissioni del Ministro. Pelosi, nella richiesta da parte del Congresso di visionare il rapporto non censurato al ministro della Giustizia, citando le parole della lettera di Mueller su quello che non ha chiarito la sua relazione, si è cosi espressa: «Il suo rapporto non è riuscito a catturare il contesto, la natura e la sostanza del lavoro del suo ufficio e le conclusioni che ne sono state tratte».
Al di là di questi conflitti tra poteri istituzionali dello stato e della narrativa politica che ne scaturisce, espressione tuttavia di come la dialettica democratica negli States sia stata pesantemente piegata attraverso cavilli legali e di natura burocratica senza precedenti, ai voleri del presidente e dei repubblicani, si deve anche raccontare e descrivere il ruolo assunto dall’opposizione. I democratici infatti non solo dovrebbero essere più incisivi rispetto alle posizioni assunte da Barr e dal presidente, costringendoli a spiegazioni che facciano luce completa sulla dialettica reale dei fatti avvenuti, gravissimi, ma anche ricordare loro che la democrazia americana non può tollerare abusi e deviazioni, seppure compiuti entro i margini della legalità, che la farebbero precipitare in precedenti pericolosi e pieni di insidie, deformandone la natura storica e politica. E invece sono troppo esitanti come Rachel Maddow, giornalista di MSNBC che certo non sta dalla parte repubblicani, ha fatto notare. E non può essere solo il timore di perdere consensi, perché caso mai queste richieste, come sottolinea Maddow, potrebbero invece far virare il consenso in direzione opposta.
Tra circa un anno e mezzo ci saranno le presidenziali del 2020 e la campagna elettorale, che è già cominciata, rischia, se si confermano i trend attuali, di veder rieletto l’attuale presidente. I candidati democratici sono infatti divisi, sono troppi e hanno già cominciato a farsi la guerra tra di loro come l’attacco di Bernie Sanders (nella foto accanto al titolo) nei confronti di Joe Biden (nella foto accanto), ex vicepresidente con Obama che ha appena annunciato la sua candidatura, sta dimostrando. In effetti forse la presenza di Biden tra i 22 candidati ufficiali più quelli che hanno dimostrato interesse verso la carica di presidente per il partito democratico, non aiuta certo a fare chiarezza. Inoltre la mancanza di una strategia ben definita del partito democratico in generale contribuisce a creare confusione nell’elettorato e se anche la presenza di Biden viene giustificata dal motivo che attrae i voti dei neri, non è purtuttavia sufficiente a magnetizzare i grandi numeri. Il panorama dei candidati è tuttavia relativamente diversificato sia sul piano politico che su quello razziale e di genere. Infatti, oltre a questi due candidati che sono all’opposto dello spettro politico con Biden moderato e Sanders spostato a sinistra e che hanno circa il doppio degli anni del 37enne Pete Buttigieg (il primo gay che decide di presentarsi alle presidenziali), sindaco di South Bend una citta di 100.000 abitanti in Indiana, ci sono il deputato texano Beto O’Rourke e la senatrice californiana Kamala Harris che appaiono come figure di rilievo. In totale ci sono sei donne e sei persone di colore.
Ma, come si sa, nel campo delle nominations ci sono molte varianti che vanno a toccare anche la vita privata dei candidati e che vanno dalle dichiarazione dei redditi, all’integrità morale, alla capacità di compiere riforme a quella infine di capire il meccanismo di funzionamento dell’istituto presidenziale. E ancora siamo molto lontani dalle nomination ufficiali. Dunque le preoccupazioni rispetto all’eleggibilità dei candidati sono reali anche se l’elezione di Trump ha sfatato tutte le teorie in proposito. Certo i maggiori obiettivi dei democratici continuano a essere, in proporzioni e priorità diverse a seconda dei candidati, i cambiamenti climatici, una riforma fiscale che aumenti le tasse a chi ha maggiori guadagni, il controllo e la vendita delle armi, il salario minimo e l’assistenza medica universale. Le elezioni di midterm hanno dato qualche speranza ai democratici e nel suo video Biden ha promesso di riportare “la normalità” entro la sfera politica. C’è infatti la necessità del ritorno al rispetto di regole e principi democratici come la vicenda del rapporto Mueller sta dimostrando. Il timore di un contesto politico avvelenato entro cui Trump sa giocare le sue carte con grande destrezza, esiste. Cosa che dimostra che i risultati finali non sono prevedibili in termini di pura razionalità politica. A questo si deve aggiungere l’abilità del presidente di connettersi con i problemi della gente, facendo sentire il suo popolo ascoltato e capito. Dunque il dibattito da parte dei democratici dovrà essere particolarmente acuto e dovrà fare in modo che i candidati non appaiano semplicemente un prodotto dell’establishment. Quello che alcuni vedono come moderazione pragmatica per altri è frutto di un disfattismo considerato cinico e dunque destinato a essere sconfitto, perché viene percepito come qualcosa di già visto che non attrae elettori. Sebbene alle ultime elezioni di midterm i democratici abbiano registro una vittoria, troppe persone sul cui voto potevano contare non sono andate a votare o hanno votato per un terzo partito.
Dunque, il partito democratico dovrà misurarsi con variabili che non sono semplicemente razionali e di pragmatismo politico, ma anche di natura personale con particolare attenzione al carisma, all’esperienza, alla passione e all’integrità morale dei suoi candidati. Che sia percepita come reale e sentita dagli elettori e non semplicemente di facciata come ancora accade in troppi casi. Perché in questo caso Trump avrà facilmente la meglio.