Al Castello di Lerici
L’ultimo esistenzialista
Una grande mostra rende omaggio ai prodigi e alle fantasticherie di Walter Tacchini. Nelle sue sculture c'è il segno di una lunga stagione della cultura europea che si muoveva tra Sarte, le sorelle De Beauvoir e Jacques Prévert
È l’ultimo degli esistenzialisti, amico di Jean Paul Sartre e Albert Camus, di Simone de Beauvoir e Jacques Prévert ma è italiano: si chiama Walter Tacchini, ha 81 anni e abita a Trebiano, in provincia della Spezia e, se può, parla solo dialetto. Il suo mondo fiabesco sarebbe piaciuto a John Tolkien: maschere, sculture, tavole misteriose, composizioni sacrali ma laiche. Tutto ciò si trova esposto alla mostra di Walter Tacchini, intitolata non a caso Kronos, il tempo visto come mitologia greca, aperta sino al 28 luglio al Castello di Lerici. Tacchini è un artista che può citare Soldati, Pomodoro, Signori o Dunchi come se fossero compagni di bar. Nella semplicità dei suoi gesti quotidiani e nell’eccentricità del modo di essere, Tacchini usa la tecnica di una immersione completa nel paesaggio della sua esistenza, fatto di partenza e ritorni.
In fondo, è nato a Romito Magra e vive a Trebiano, quindi il suo tragitto esistenziale potrebbe essere compreso in una ripida salita con qualche curva e nulla più. Eppure, dentro il suo cammino c’è appunto l’esistenzialismo, l’arte sociale, Parigi, la Francia, le sorelle de Beauvoir, Sartre e Prévert. Lui gode di un inconfondibile segreto, il segreto delle mani capaci di plasmare qualsiasi materia. È del tutto evidente che è un background che gli viene dal padre Attilio, esperto imprenditore edile, uno che senza avere la laurea da architetto progettava case di grande qualità. A vent’anni, Walter ha scoperto che le mani erano un efficace strumento di creatività e quindi ha cominciato a dipingere, fare statue, scolpire la pietra, intagliare il legno, giocare con qualsiasi materia malleabile.
La svolta della sua vita si ebbe agli inizi degli anni Sessanta quando la ditta Tacchini era impegnata nella costruzione della nuova casa di Franco Fortini e di sua moglie Ruth a Bovognano, lungo la strada che da Ameglia conduce a Montemarcello. «Verso il 1962-63 Le Corbusier – racconta Tacchini – venne da Fortini, di cui era amico. È in quell’occasione che lo conobbi e che apprezzò il lavoro che facevo con mio padre. Mi fece guardare verso Carrara, verso le cave, e mi disse: “Tu sei uno scultore nato, perché non ti dedichi alla scultura?”. Come me, Le Corbusier era figlio di un edile e non era laureato. Decisi così di darmi alla scultura e partecipare alla Biennale di Carrara dove le mie opere furono notate da Lionel De Roulet, Direction pour les Affaires Culturales del Consiglio d’Europa, marito di Hélène De Beauvoir. Lui volle incontrarmi e così conobbi anche Hélène de Beauvoir. Loro erano innamorati della nostra zona e mio padre trovò loro la casa di Trebiano, che ristrutturammo per rimediare ai danni subiti durante la guerra».
Con Lionel e di Hélène de Beauvoir fa i primi passi artistici fuori dal suo territorio: Milano, Parigi, Pireo, Strasburgo, il festival di Avignone e il festival d’Autunno, il Centro Georges Pompidou, gli esperimenti di arte sociale a Montbéliard, la mostra Amis de Jacques Prevert. Una riconoscenza reciproca che si concretizzerà nel lascito della casa giallognola di Trebiano proprio a Walter e alla moglie Milena, quella che Hélène chiamava «ma petite famille italienne». Così lo studio che era di Hélène ora è il pozzo creativo di Walter, colmo di maschere, figure, statue, quadri e tappeti figurati, esposti ora al castello di Lerici.
C’è una certa continuità tra le forme astratte di Hélène e le architettoniche figure di Tacchini. Una ricerca contigua di una dimensione nuova del reale che diventa fantastico. Il punto vero e incredibile è che questi due artisti siano – è il caso di dire oltre la dimensione del tempo – così vicini e così distanti: la primadonna elegante, sobria, austera e l’artista estroverso dai calli alle mani, apprezzato per il suo piglio artigianale.
Oltre il silenzio delle stradine di Trebiano viene da pensare ai passi lenti di Walter, Jean Paul e Lionel, ai pomeriggi di tè che Hélène offriva nel giardino agli altri ospiti illustri del borgo come gli artisti Silvio Loffredo e Susan Newell o l’editrice Alberta Andreoli, alle discussioni artistiche che Walter imbastiva mischiando italiano, francese e dialetto spiegando l’illuminazione del paesaggio a Hélène. Poi Walter divenne un grande amico, quasi un socio di Albert Diato: insieme hanno condiviso una accurata ricerca sulla terracotta, la concezione delle forme e l’uso delle materie primarie per imprimere i colori. Il trambusto estivo dei francesi di Saint-Germain-des-Prés andò pian piano scemando sino a farsi sottile presenza e poi assenza. Ma ancora risuona l’eco della voce di Jacques Prévert che, di fronte a una sua scultura di nero di Colonnata di Tacchini, dice con tono soave e poetico: «Questo artista davanti alla sua porta ha una quercia grande con delle radici profonde».