Visto al Teatro Vascello di Roma
Quando l’onestà piace (troppo)
Torna sulle scene uno dei grandi classici della drammaturgia pirandelliana e uno dei suoi testi più rappresentati. A rileggerlo ci pensa questa volta Alessandro Averone, già noto al pubblico per il suo “Così è se vi pare” del 2010
Torino, Teatro Carignano, 27 novembre 1917. In questa fredda serata di fine autunno, il pubblico attende febbrilmente il debutto di una nuova commedia di Luigi Pirandello, drammaturgo da qualche anno sempre più apprezzato in Italia. In sala, siede un giovane universitario che si occupa in quegli anni di critica teatrale, ma che sarebbe passato alla storia come uno degli intellettuali più influenti del Novecento italiano. Due giorni dopo uscì la sua recensione sull’Avanti e una frase in essa contenuta dava una interpretazione del drammaturgo siciliano suggestiva e valida ancora oggi: «Luigi Pirandello è un “ardito” del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero». L’opera rappresentata era Il piacere dell’onestà; l’acuto recensore Antonio Gramsci. In un anno fatale per l’Europa, in cui imperversava una guerra che avrebbe posto la pietra tombale sull’antico regime, e in cui solo venti giorni prima aveva capitolato il secolare Impero zarista, l’autore dei Quaderni paragonava in qualche modo le bombe (vere) che stavano cambiando il volto del continente a quelle metaforiche che stava innescando il teatro di Pirandello contro convinzioni e convenzioni inveterate. Il Piacere dell’onestà che suscitò al filosofo quelle parole chiaroveggenti sembra rispondere in pieno all’immagine esplosiva associata a quel geniale ‘dinamitardo’ che fu Pirandello. Infatti, dietro il suo riso apparentemente leggero e disimpegnato, la commedia pirandelliana mina alla base i pilastri del mondo alto-borghese, denunciando l’ipocrisia che si cela sotto la venerazione solo apparente degli idoli della famiglia e dell’onestà.
Nella trama del dramma, il marchese Fabio Colli, già sposato e adultero, ha finito per mettere incinta la non più giovane amante Agata Renni, e deve trovare un modo per salvare la faccia in società. In combutta con la madre di lei, Maddalena, decide quindi di chiedere a suo cugino Maurizio Setti di trovare un uomo disposto a sposare (in bianco) la giovane, così che quello si spacci come padre del bambino e lui mantenga la sua piena facoltà decisionale sulla vita di Agata. Il giovane Setti individua il candidato nel suo ex compagno di studi Angelo Baldovino, che accetta volentieri la proposta perché vede in essa la sua occasione di riparare a certi errori di gioventù e re-integrare a pieno titolo quell’onestà venerata dai borghesi. «Sposerò per finta una donna: ma sul serio, io sposo l’onestà». Quella che doveva essere la soluzione al misfatto si rovescia però, comicamente, nell’inizio di tutti i problemi. Angelo, infatti, si compiace a tal punto del “piacere dell’onestà” che finisce per corrispondere rigorosamente alla forma di uomo integerrimo che la società gli ha imposto. Nel rispetto del suo ruolo, il protagonista decide quindi di scegliere lui il nome del primogenito, di celebrare il suo battesimo in chiesa rispetto alla cerimonia sottobanco che gli propongono Fabio e Maddalena, e finisce infine per non sottostare alla truffa che il marchese gli tende per potersi sbarazzare di lui, divenuto ormai un ostacolo ingombrante. Con la sua adesione integrale ai valori professati dalla morale borghese, Angelo Baldovino sconfessa il falso perbenismo di cui la società si ammanta e denuncia l’ipocrisia opportunistica che soggiace alla loro onestà di facciata.
Con la sua trama originale e le sue dinamiche ben congegnate, Il piacere dell’onestà è uno dei testi più fortunati e spesso rappresentati di Pirandello (leggi qui un esempio recente). Lo spettacolo è ora riproposto da Alessandro Averone, nelle doppie vesti di regista e del protagonista Baldovino, che torna a occuparsi di Pirandello dopo la sua regia di Così è (se vi pare) del 2010. Secondo il regista, il salotto borghese, in cui è ambientata la vicenda, è il «luogo principe dell’ipocrisia e dell’immagine» e il testo «ci mostra con un limpido paradosso la drammatica e ridicola difficoltà di essere radicalmente e compiutamente se stessi». Le scene di Alberto Favretto e i costumi di Marzia Paparini restituiscono efficacemente la realtà alto-borghese descritta dall’autore e valorizzata dal regista, grazie alla presenza inconfondibile di un divano rococò, ritratti alle pareti, e i vestiti di foggia settecentesca che i personaggi esibiscono insieme ai loro anacronistici volti incipriati. Lo sforzo congiunto di scene e costumi appare dunque quello di rendere una evidente contrapposizione tra il fatuo mondo ancien régime e Angelo Baldovino, che non a caso è l’unico personaggio vestito alla moderna, nel primo e nel terzo atto, mettendo in risalto la sua distanza da quell’ambiente sociale che le sue azioni scardineranno. Interessanti sono anche le musiche, a cura di Mimosa Campironi, che con i loro brani classici rivisitati in chiave rock (dal Vivaldi dell’Estate al Mozart dell’ouverture delle Nozze di Figaro) vogliono forse anch’esse suggerire la dirompenza della “modernità” del protagonista (e con lui di Pirandello) rispetto alla tradizione prestabilita.
Nel cast, a parte Averone, intenso nei monologhi argomentativi affidati al protagonista, si distinguono soprattutto Laura Mazzi, che presta alla Maddalena i tratti esasperati della borghese in declino, e Marco Quaglia, che regala un originale marchese affettato e isterico. Lo spettacolo, un’ora e mezza senza intervallo, procede a ritmo spedito e si segnala per un profondo rispetto del testo più che per idee registiche innovative. Questa scelta appare azzeccata, perché, senza bisogno di inutili superfetazioni, già solo i testi pirandelliani appaiono – oggi come allora – come materiale altamente esplosivo per «i cervelli degli spettatori».
Ph. Manuela Giusto