Al Maxxi di Roma
L’arte in gioco
Omaggio al giovane talento di Paola Pivi, artista concettuale sospesa tra provocazione e installazione. Ma il suo approdo alla celebrità ha un po' affievolito la forza delle sue suggestioni degli esordi: l'artista non sa più giocare?
Di Paola Pivi, 48 anni, star del contemporaneo made in Italy da esportazione, milanese trapiantata in Alaska, conservo il ricordo folgorante di un’opera vista una quindicina di anni fa, che ha poi fatto furore su Youtube. Una foto a colori che inquadrava un asinello dritto sulle zampe in una barchetta che a stento lo conteneva. A poppa un motore fuori bordo, spento o probabilmente fuori uso. Attorno un mare azzurro appena increspato da qualche fiacca ondina. Dentro, nient’altro che quell’animale, un’espressione ebete e rassegnata. Un’immagine sospesa a galleggiare tra senso e non senso. E a trascinarci in quel gioco di spaesamento. Ecco un artista che ha un futuro davanti, mi è venuto di pensare. Di strada a dire il vero Paola Pivi ne aveva già fatta. Incoronata tre anni prima con il Leone d’oro a Venezia quando era ancora un allieva all’Accademia di Brera, per quel piccolo aereo a reazione incastrato a testa in giù tra i piloni del Padiglione Italia all’Arsenale, le ali e la fusoliera spudoratamente intatte, come la carlinga a vetri addossata al suolo. Ma quel velivolo capovolto, che destò tanto stupore tra i critici modaioli sulla laguna, sapeva comunque di artificio ,di costruito, già visto. Un calcolo che non reggeva a mio avviso la semplicità ,l’immediatezza, l’emozione, sovraccarica di domande, di quella bestiola abbandonata a bordo di una scialuppa.
Da allora ho continuato a seguire direttamente o a distanza le esibizioni della Pivi, incasellando nella memoria un susseguirsi di icone e sconfinamenti d’immaginario dall’esito alterno. Opere di sicura ispirazione e altre inguardabili come quell’applaudito campionario di orsi di peluche di tutti i colori a grandezza naturale che sembravano presi in prestito dallo zoo fantastico di un imitatore del cascame peggiore del pop americano. Un’altalena di risultati e di effetti così vistosa da restituire il sospetto di un talento viziato da troppi consensi e così incalzato dalla necessità di ripetersi per essere sempre e comunque sulla scena da smarrire anche la misura spontanea, la naturalezza del gioco.
La stessa sensazione oscillante con cui abbandono la mostra, che il Maxxi di via Guido Reni a Roma ha messo in cartellone fino all’8 settembre per rendere omaggio a Paola Pivi con un assemblaggio di vecchi e nuovi lavori. Tra le opere riproposte c’è anche quell’aereo a pancia in su degli esordi, rimontato a mo’ di manifesto alle spalle del museo: lo stesso apparecchio riesposto in un riallestimento all’aria aperta che ne attenua l’impatto e lo trasforma in una sorta di copia sbiadita. Manca, invece, tra le citazioni di carriera, la foto di quell’asinello che dondolava incongruo sull’acqua. E forse è anche questo il segnale di una scelta di campo, di una svolta dell’autrice verso un’impostazione concettuale più arida di emozioni.
Il grosso delle opere è nella grande sala all’ultimo piano. Ad accogliere il visitatore è una grande istallazione che piove dal soffitto. Una maglia di piccoli cuscini a salsiccia annodati che dondola su in alto in una combinazione precaria di allacci ed agganci, moltiplicata dalle ombre proiettate sul soffitto. I colori delle stoffe, giallo e rosso, evocano quelli delle tonache dei monaci tibetani, una spiritualità con cui da tempo Paola Pivi è entrata in contatto e sulla quale ha compiuto una lunga ricerca,raccogliendo ed esponendo i ritratti dei capi di quei centri di meditazione e preghiera. Una religiosità che ora sembra mettere a nudo ma con pudore e ritrosia con un titolo intrigante ed enigmatico: «Condividi ma non è giusto». Un clima di complicità che vien immediatamente smentito da tre opere sparse nella stanza in salita. Due sono prove di bravura destinate a stuzzicare il palato dei critici. C’è una piccola scatolina di plexiglass, una sorta di stanza in miniatura che ne racchiude all’interno altre due. una matafora- segnala la breve presentazione in catalogo- dei complessi labirinti interiori attraverso i quali diamo forma alla nostra ricerca di identità.L’altra è un modellino di divano letto, dai pacchiani riflessi dorati, irrorato da iniezioni straripanti di profumo. A mio avviso un giocattolino di gusto kitsh. Per i curatori del catalogo una ammirevole testimonianza dei contatti sempre più ravvicinati degli artisti di oggi con il design.
Il terzo innesto è un tappeto, finto, di pelle d’orso, che ci strizza l’occhio con un titolo incomprensibile, Sono single, spiegabile solo dal rimando ad un’istallazione della Pivi che faceva scivolare dall’alto come orme di una preda da cacciare una ventina di altre pelli simili. E qui il rimpianto per quell’immagine senza orpelli e citazioni criptate dell’asino in barca che abbiamo citato all’inizio si fa davvero molto forte.
Divertente almeno la parata di opere sulla parete di fronte: ruote di bicicletta azionate a motore e sormontate da piume di varie fogge che sventolano come donnine ammiccanti e leggiadre di un ballo d’epoca. Un esplicito omaggio a Duchamp che aggiorna e trasforma in svago di superficie la provocazione dei ready-made del gran maestro dada. E probabilmente manderà in brodo di giuggiole la casta dei critici postmoderni che un secolo dopo continua a considerare quel modello e quelle profezie sulla morta e le mutazioni dell’arte come una dogana ineludibile per la contemporaneità.
L’ultimo atto è una ingombrante e goffa istallazione: una sorta di dilatato lettone e a castello che sorregge in alto e in basso un tappeto e un soffitto di materassi. I visitatori sono invitati a munirsi di soprascarpe e ad infilarcisi dentro, anche se l’ingresso è piuttosto scomodo e la vista una volta entrati si stringe a fessura. Ancora una volta la chiave è quella del gioco, un’esortazione a lasciarsi andare come messaggio per gustare meglio la vita. E a chi quel gioco non piace, non stuzzica per come è costruito e presentato, nessuna libera fantasia? Molto meglio i capannoni dei lunapark di una volta, dove il sovvertimento di sensi e il capovolgimento di abitudini e prospettive era almeno governato da meccanismi ben collaudati.