Incontro con il poeta
Le ninfe di Vegliante
Jean-Charles Vegliante, la poesia, i classici, il "post-sperimentalismo" e il bilinguismo: «Essere “tra due lingue” significa innanzi tutto cercare non tanto la commistione quanto quella particolare espressione che non sempre una singola lingua “vuole” significare»
Considerato tra i massimi poeti in lingua francese, Jean-Charles Vegliante è professore emerito alla Sorbonne Nouvelle di Parigi. Interprete infaticabile dei nostri classici (Dante, Leopardi, Ungaretti, per dirne qualcuno), ha fronteggiato in numerosi saggi il problema della traduzione, fondando anche un centro interdisciplinare di scambi culturali. La sua poesia acquista terreno nel primigenio vorticare di interferenze linguistiche – la «doppia appartenenza» segnalata da Giovanni Raboni – ed echi intertestuali che conferiscono al loro autore l’aura e il lignaggio di poeta doctus. Recentemente insignito del premio Betocchi e socio onorario dell’Accademia pascoliana (ha da poco curato un’antologia di liriche scelte di Giovanni Pascoli, L’impensé la poésie, Éditions Mimésis, pagine 124, euro 12), Vegliante ha arricchito di alcuni suoi inediti il volume miscellaneo Notturni e musiche nella poesia moderna, a cura di Anna Dolfi (Firenze University Press).
Nel 2004 è uscita, per Einaudi, Nel lutto della luce, una panoramica della sua produzione lirica dal 1982 al 1997.
L’antologia Nel lutto della luce, costruita con l’amicale consiglio di Giovanni Raboni, riprendeva in parte alcune plaquettes anteriori, un brano dal mio Rien commun apparso nel 2000 presso la casa Belin, e quasi tutto il librino Les oublies pubblicato da Obsidiane, di cui Raboni apprezzava la forma fissa delle quartine. Come avrei fatto in seguito con Pensiero del niente, tradotto da Felice Piemontese per Stampa2009 (con presentazione di Maurizio Cucchi) nel 2016, ho pensato bene di aggiungere, per l’occasione italiana, anche qualche inedito e alcuni testi scritti direttamente in quest’ultima lingua. Non dimentico che una poesia lunga di Nel lutto della luce fu lasciata da Giovanni, con la sua solita eleganza, nella versione anteriore di Franco Fortini (e mi accorgo, nel mentre, di essere stato molto fortunato quanto a traduzioni italiane: Fortini, Raboni, Luce d’Eramo, Albinati, Piemontese, Benedetti, altri ancora)… Lo scambio con poeti italiani – e, per ultimo, con le signore della Compagnia delle poete che mi hanno onorato con ben dieci versioni di una mia poesia… italiana! su Specimen – è stato costante, anche per ragioni se posso dire professionali, visto che mi occupo da sempre, in ambito universitario e non, giustappunto di poesia italiana. Presso la Sorbona Paris 3, curo con alcuni colleghi più giovani la pubblicazione in rete “Une autre poésie italienne”, anche qui con parecchi inediti, e ho pubblicato per altro almeno tre sillogi antologiche di argomento simile: un numero monografico che oserei dire storico di “Action poétique” nel 1977, Le Printemps italien; un numero di “Siècle 21” (ampliato su http://circe.univ-paris3.fr/Poesie_italienne_d’aujourd’hui.pdf); e a puntate adesso l’antologia “Amont dévers” su Recours au Poème, giunta alla sua undicesima puntata: https://www.recoursaupoeme.fr/amont-devers-n35/). Sono stato pubblicato in Italia pure dal gruppo La Luna (Forlì) e SIR di A. Zanella (S. Lucia ai Monti), e ovviamente su qualche rivista come Nuovi Argomenti o TraduzioneTradizione.
Che ruolo ha il passaggio femminile, segnato dalla «messaggera» e dalla «fanciulla», nei suoi versi?
Meglio di come potrei fare io, ha risposto a questa domanda Italo Testa in un bel saggio intitolato proprio Bifarius o della Ninfa, apparso in rete su Nuovi Argomenti il 24-01-2017; il poeta studioso identifica nella Ninfa una figura della nostalgia insita, credo, in ogni poesia diciamo post-avanguardie. Il femminile in sé, dagli arabo-andalusi ai trovatori alla scuola siciliana a Dante (e la sua Beatrice “odegitria”) a Petrarca ecc. ecc., potrebbe rappresentare del resto la fuggevole poesia medesima, già da Mallarmé indicata come ciò che sta scomparendo (e basti rileggere il Pascoli, in componimenti famosi di Myricae o Canti di Castelvecchio o alcuni Conviviali): ciò che il verso tenta di fissare come “altro” (altro in ogni caso per l’uomo ma non solo), come bellezza che la forma può preservare e anche uccidere, o imbalsamare. Preservare come corpo morto (una delle puntate del mio “Amont dévers” antologizza alcuni esemplari di donne amate – e scomparse – come un vero tópos troppo poco studiato della poesia e particolarmente, guarda caso, della poesia italiana); oppure come morte tout court, anche orrenda (vedi Baudelaire), ossia oserei dire come ciò che non ci può più essere tolto, poiché passato già nell’altra dimensione: il canto delle mummie del grande Leopardi, ad esempio. Ora, in altre lingue come la tedesca, la morte è maschile, e questo discorsetto andrebbe forse argomentato meglio (il vecchio “falciatore”, certamente, non evoca nessuna fanciulla), ma tant’è: nel mio mondo di riferimento (Weltanschauung) italo-francese, anzi romano-parigino, e per forza di cose maschio, la figura femminile, fisica simbolica metafisica, è senz’altro, come forse avrebbe detto Bonnefoy, una “vera presenza” poetica. Di sicuro, un’immagine forte archetipica (come scrive Italo Testa) già incontrata in Tasso (la foresta incantata), in Ungaretti (L’isola), in Mario Benedetti (le parenti scomparse).
Cosa significa vivere e scrivere tra due lingue?
Ho tentato, anche in conformità del mio interesse per le scritture “migranti”, di teorizzare non il bilinguismo (da scuola di traduzione) bensì la doppia appartenenza come scelta di dialogo e scambio con l’altro da sé – nel mio caso, quasi naturalmente (nel significato di “lingua naturale”, non di stretto genere o gender), quasi spontaneamente femminile o femmineo. Ma le lingue, per lo meno quelle non troppo diverse e lontane tra loro che conosco, comunicano in un certo qual modo misterioso, soprattutto attraverso il linguaggio della poesia, o della letteratura in genere (si pensi a Proust passato nell’italiano di Raboni). Gioco o joke: “la lingua langue”. Infine, ci sono anche fenomeni di bi o multilinguismo, che ho cercato di coltivare anch’io, e qui torna il nome di Pascoli, oppure oggi di Michele Sovente, di Amelia Rosselli, di Antonella Anedda, e altri. Essere “tra due lingue” significa innanzi tutto cercare non tanto la commistione (o la cosiddetta mescidanza) quanto, in ogni codice disponibile, quella particolare espressione che non sempre una singola lingua “vuole” significare, anche se, com’è ovvio, lo può fare. Epperò traduce, e si traduce.
In quale solco letterario, dunque, inserirebbe la sua opera, post-surrealismo francese o secondo Novecento italiano?
Questa del post-surrealismo è una categoria che non capisco appieno, preferirei pensare a un post-sperimentalismo, o post-formalismo per la mia parte francese, e a una forma di “altro” Novecento (narrativo, realistico, dialettale…) per la parte italiana; ma Frénaud in quanto post-surrealista mi sta bene, e Fortini in quanto secondo Novecento pure. In Francia e in Italia, vi sono individualità per me fuori categorie che più mi convincono, mettiamo Philippe Denis o Eugenio De Signoribus, per fare solo due nomi. E già Zanzotto, a me pare, s’imponeva in quanto autonoma individualità.
C’è un poeta italiano da cui si sente maggiormente influenzato?
Sicuramente Montale, anche se l’ho tradotto poco, e quelli che gli stanno a monte (anche se non sempre riconosciuti) come Pascoli ancora, D’Annunzio, Sbarbaro, Gozzano, Rèbora… Ma non bisogna dimenticare che più della gettonata intertestualità vale, per chi scrive, l’infinito arcitesto di ogni tipo e tempo, con tracce a volte soltanto oblique, ritmiche, da sottotesto celato, da suggestioni nascoste, e nel mio caso il nome fondamentale per il Novecento rimane sicuramente l’ironico, aereo, buono Ungaretti. E, per il gioco sottile dei suoni, un certo Betocchi.
E ha tradotto in metrica la Commedia dantesca…
Vorrei dire innanzitutto che la Commedia, per uno che cerca (almeno) di scrivere e vivere in poesia non è più difficile da tradurre di una pagina di giornale, col linguaggio astruso, allusivo, ammiccante che hanno spesso, soprattutto visti dall’estero, alcuni media. Non intendo assolutamente sembrare dissacratorio in ciò, anzi, direi che più un testo è ricco dal punto di vista poetico, polisemico ecc. e più esso è (infinitamente) traducibile. Quanto alla costrizione metrica, se c’è nell’originale (e non in maniera decorativa) bisogna a tutti i costi conservarne una traccia nel testo di destinazione. Non lo affermerei, a contrario, della rima, anche se – quando viene per così dire spontanea – la si può pur conservare (la sfumatura, qui, sarebbe su “a tutti i costi”, dunque). Io mi sono sforzato soprattutto di ritrovare la potenza d’urto dell’assoluta innovazione dantesca, l’invenzione dell’Alighieri, come si dice “invenzione dell’America” da parte di Cristoforo Colombo, evitando cioè sia il “solenne alessandrino” classico sia l’antico décasyllabe di ascendenza cavalleresca e cercando – per la questione della rima appena sopra accennata – una specie di “equivalente” (ma nulla equivale, in poesia, a nulla nell’altra tradizione lingua cultura accademia), diciamo un’eco possibile della catena perpetua da terzina a terzina: ho incatenato perciò un terzetto su due con un verso riconoscibile più breve, un décasyllabe appunto, frammisto (ma in posizione fissa) alla conturbante maggioranza di endecasillabi all’italiana. Uno dei tanti “decentramenti” che la traduzione vera, che chiamo qua e là transduzione, deve operare nella lingua di destinazione, per accedere allo statuto di testo letterario (secondo).
Per lei il bilinguismo è «la facoltà – certamente non innata – di poter ascoltare l’altro, di potere mettersi al suo posto». La traduzione può avere una valenza etica, se non metafisica?
A parte il “posseder più lingue” e soprattutto il poterle usare per farne qualcosa, di cui ho parlato qui addietro, la traduzione letteraria è un laboratorio adatto a comprendere – indipendentemente dal “genio”, se così vogliamo dire, del creatore (el hacedor di Borges) – il procedere, il potere e i doveri del fatto letterario. La poesia, fra tutti i linguaggi che ci consentono di proteggerci dalla violenza assoluta grazie alla simbolizzazione, alla mediazione e alla menzogna (la lingua, come sappiamo, serve anche – per fortuna – a mentire), è insieme quello che, pur nell’indispensabile fictio, come scriveva Dante (De vulgari eloquentia), riesce a creare una certezza di “presenza” della parola detta (o scritta). In altri termini, essa si maschera sì, sotto la veste estetica, retorica e via dicendo, ma per riuscire a sostituire o meglio colmare sul piano simbolico l’assenza degli esseri e del cosmo che ci stanno a cuore: spesso, si sente questa formula, che essa “fa” quel che “dice”, quindi in realtà che fa dicendo. La “funzione poetica” senza la dura esigenza della poesia non arriva a tanto (anzi, rimane per lo più serva di imperativi editoriali o pubblicitari spettacolosi ecc.). Ma la poesia, facendo, non fa altro che realizzare se stessa quale oggetto poetico, anche se questo oggetto può, sotto certe condizioni di lettura ideale, anche assumersi il ruolo della realtà assente ma possibile, di un futuro auspicabile situato nell’azione en avant (valenza etica) o nell’assoluto che consente di non ripiegarsi sul disperante pragmatismo quotidiano (valenza se vogliamo metafisica). Il resoconto del viaggio ultraterreno di Dante rimane, per noi, con o senza dimensione religiosa, ma in quanto creazione poetica atta a testimoniare e a “tradurre” un’esperienza eccezionale di scrittura, ritenuta “utile” ai suoi lettori, l’archetipo di tale duplice valenza della letteratura.
Riprendendo Benjamin, crede nella possibilità di una lingua pura, edenica?
La Reine Sprache di Benjamin, a parte le connotazioni mistiche del pensiero del filosofo tedesco da non sottovalutare, rimane pur sempre un orizzonte quasi inabissato, anzi irraggiungibile perché in continuo movimento di sottrazione e scomparsa – come del resto la pura poesia – a scapito degli sforzi del “vero” traduttore. Questi deve correre dietro un ideale di opera per così dire inesistente poiché sempre “seconda” rispetto a un originale che le chiede insistentemente di accoglierlo tale e quale in altra forma e sostanza (l’altra lingua, di destinazione per l’appunto). Un impossibile che però viene non solo realizzato in ogni nuova traduzione degna di tal nome ma che, nel suo continuo rincorrere, designa la “pura lingua” e letteralmente ne fa esistere il fantasma o ombra portata, che sarebbe poi la sua unica maniera di essere, come in negativo. L’impossibile funziona, non è semplice aporia. L’eden, già nel discorso dell’Adamo dantesco (Paradiso XXVI), parla solo per il tramite umano, come a questo piace (“secondo che v’abbella”), e non a partire da un’origine perduta (il nome di Dio stesso, prima “I” diventa poi “El” e via via cambia secondo “l’uso d’i mortali”). All’opposto degli integralismi più recenti, bloccati in una Ur-Sprache, che sarebbe tutt’altra cosa.
Quale peso ha oggi la poesia in Francia?
Un peso forse maggiore che in Italia nelle cerchie ristrette degli intellettuali parigini (da verificare: i grandi premi sono comunque della prosa, anzi della prosa narrativa), ma molto minore in genere, fra la gente “comune” delle regioni e provincie francesi. In Italia, bene o male, ci sono ancora tanti editori medio-piccoli indipendenti, associazioni, premi, accademie; in Francia, con l’eccezione sorprendente di Actes Sud (in realtà con uffici e agganci e abitudini nella capitale), solo Parigi conta, con la sua unica Académie française. Dico su carta, ché per fortuna i mezzi elettronici consentono di far vivere bene e funzionare decentemente siti anche notevoli dappertutto; i blog, come in tutto il mondo, fioriscono. È molto probabile che si dovrà cercare là, ormai, la poesia libera e viva di oggi. Purché non siano contaminati a loro volta – come la “grande” editoria già da tempo – dalle combinazioni, amicizie, cappelle, commerci, interessi e territori, analizzati egregiamente da Pierre Bourdieu. Del resto, in questo campo come altrove, pare logico che prevalga il sistema neoliberale dominante: “A seconda sarai potente o poveraccio” avvertiva uno dei più grandi poeti francesi in assoluto, Jean de La Fontaine, nel 1678.
***
Musiche
La musica mi prende sulla sua corrente
interminabile, sulle onde cangianti,
il suo lento crollare nell’abisso amaro
da cui vengono i diamanti, le cose morte,
da cui volano gli uccelli, i vapori escono
e coprono la camera agitata con un vento
salino che esalta ed esaurisce le forze
di reni febbrili come una volontà di morire:
la bellezza culla e distrugge, e rinasce
sempre dal desiderio di morire senza partire
ci ripete: più nulla, piuttosto che non esser più!
Là un passato oscilla, lo hai riconosciuto.
(con Pascoli)
Jean-Charles Vegliante
(Traduzione di Alberto Fraccacreta)
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(Con Leopardi)
…
quasi come a diporto
ardito notator per l’Oceano:
così traduttor vano
si crede in alto mar giunto a buon porto
…
Jean-Charles Vegliante (in italiano)
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Questa è la versione integrale dell’intervista uscita su «Avvenire» il 21 marzo 2019, con il titolo Vegliante: «Scrivo (e vivo) in poesia».