Al Teatro Sanzio di Urbino
Le maschere del ’68
A Urbino va in scena una riduzione del giallo “I ragazzi del massacro” di Giorgio Scerbanenco: un modo insolito di raccontare una stagione importante e controversa della nostra storia
«C’era una volta un bianco castello fatato, un grande mago l’aveva stregato per noi. Sì, io ti amavo. Tu eri la mia regina e io il tuo re». Esordiva così Jimmy Fontana nella canzone La nostra favola del ’68. C’è il brano, c’è il medesimo periodo storico, ma non ci sono bianchi castelli fatati, né tanto meno re e regine innamorate. C’è, però, una Milano straziata e buia che fa da sfondo alle rivolte di operai e studenti, una Milano dilaniata dal caos, dallo smog che intossica persino l’anima. Paolo Trotti, regista della compagnia Linguaggicreativi di Milano, porta al teatro Sanzio di Urbino il suo Sessantotto con I ragazzi del massacro.
Questo anno emblematico è, infatti, il protagonista di un lancinante noir, tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Scerbanenco, che il regista decide di calare in un’atmosfera minimalista, ma carica di significato. Sul palcoscenico, nella penombra iniziale, s’intravedono un banco, due sedie, una bottiglia di anice lattescente e un cadavere nudo e seviziato: sono gli ingredienti di una storia che nasconde la realtà della violenza all’interno delle dure contestazioni contro i pregiudizi sociopolitici protagonisti di quell’epoca.
Si comincia con l’insegnante della scuola serale “A. e M. Fustagni”, Matilde Crescenzaghi, violentata e massacrata da undici suoi studenti, quelli che l’autore stesso definisce come «i ragazzi del massacro». Il titolo racchiude in sé la sentenza e i colpevoli, ma il commissario Duca Lamberti (Stefano Annoni), storico protagonista dei romanzi di Scerbanenco, è pervaso dall’idea che l’omicidio nasconda un mandante, e conduce l’indagine assieme al pretore Luigi Carrua (Diego Paul Gualtieri) e all’amica Livia (Federica Gelosa). Duca Lamberti: ex medico condannato a tre anni di carcere per aver praticato l’eutanasia a un’anziana signora. Un personaggio – secondo lo stesso attore Annoni – che è il connubio perfetto fra due elementi naturali: il fuoco e la terra. Ostinato, testardo, sicuro delle proprie idee, innamorato dell’amica Livia dal volto sfregiato. Sarà lui a mettere in discussione una verità apparentemente scontata e lineare.
I tre attori, attraverso un gioco di luci a intermittenza, si trasformano in una miriade di “maschere”, ognuna delle quali incarna una parte significativa di ciò che è stato il Sessantotto. Luci fredde, giochi di ombre, dialoghi serrati con il pubblico. Un debole e languido suono di chitarra sembra dare voce al disagio sociale di cui I ragazzi del massacro è la metafora vivente. Lo spettacolo appare decisamente centrato sulla giustizia, sulla necessità di perseguire il vero anche quando le circostanze sembrano convincere del contrario. In quegli anni Milano è agitata dalle manifestazioni, dalle occupazioni, dagli scontri in piazza. «Una storia che appartiene a tutta quella umanità – sottolinea il regista – che crede che la verità sia un bene necessario e la giustizia una vittoria del genere umano contro le barbarie».
L’omicidio della maestra diviene così il tramite per qualcosa di più grande: il viaggio che ogni personaggio percorre fino ad arrivare all’autenticità della vicenda e dei propri moti interiori. Un anno preciso, un luogo preciso e una vicenda precisa che inglobano implicitamente tutto il nostro oggi. Dietro ai personaggi si cela una generazione di figli che vuole uccidere dostoevskianamente i padri, ma che commette gli stessi crimini con eguale efferatezza. Una generazione che, pur essendo convinta di essere nel giusto, fallisce miseramente.
«Ho tentato. Ho fallito. Fallirò ancora. Fallirò meglio», urla Duca Lamberti sulle tracce di Samuel Beckett. Il senso di inanità e il marcio di un mondo piccoloborghese corrotto sono rappresentati in scena attraverso la costruzione di quinte in forma di velo, che dividono in due il palcoscenico e che smascherano i cambi d’abito dei personaggi. Puro elemento teatrale o metafora di una società che si decompone sotto i nostri occhi, ma che fingiamo di non vedere?
La regia di Trotti supera il genere poliziesco per lasciare spazio all’analisi della psicologia dei personaggi. L’enigma, risolto quasi all’inizio della pièce, lascia allo spettatore la possibilità di riflettere sulle atmosfere, sui movimenti scenici e sul significato sepolto dietro ogni parola. «Senza più sorriso,/ senza più amicizia col mondo,/ separati,/ esclusi (in una esclusione che non ha uguali);/ umiliati dalla perdita della qualità di uomini/ per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)», scriveva Pier Paolo Pasolini nella poesia Valle Giulia, citata dal pretore Luigi Carrua. Un modo diverso di fare teatro, dunque, che nasce dalla volontà di andare oltre gli schemi e dalla forte esigenza di una nuova libertà di pensiero.