Visto al Teatro Eliseo di Roma
Il gigante Lavia
Dopo aver debuttato al Piccolo Teatro di Milano, approdano a Roma “I Giganti della Montagna” di Luigi Pirandello nel nuovo allestimento voluto e diretto da Gabriele Lavia. La maxi-produzione vede la collaborazione di tre teatri stabili e due enti regionali e conquista il favore del pubblico
Testamento spirituale di Luigi Pirandello, opera aperta dal finale incompiuto, pièce onirica intrisa più di altre di tematiche occulte e irrazionali: i Giganti della montagna sono certamente uno dei testi più misteriosi dello scrittore agrigentino. Definita dal loro stesso autore come il “mito dell’arte”, l’opera è la riflessione conclusiva sul senso del teatro da parte di un autore che a questo tema ha dedicato la quasi totalità della sua produzione. Protagonisti del dramma – come avviene nei più noti testi meta-teatrali pirandelliani – sono due gruppi di attori: da una parte gli Scalognati, bizzarra combriccola guidata dal mago Cotrone ed esiliatisi da tempo in una villa desolata, dall’altra la compagnia della contessa, composta di otto teatranti e in cerca della loro occasione di rappresentare la Favola del figlio cambiato, opera scritta per loro da un Poeta suicida. Gli allievi di Cotrone sono irreali, smaterializzati quasi come spettri (I fantasmi era infatti il primo titolo di quest’opera), mentre concreti e plastici, legati da intrecci sentimentali sono gli attori della contessa. L’incontro tra questi due gruppi non può quindi che tradursi in scontro, tra individui molto diversi ma soprattutto in un contrasto dialettico fra due opposte visioni del teatro. Se Ilse, infatti, è ancora convinta del valore sociale della drammaturgia, del fatto che una storia debba vivere “in mezzo agli uomini”, tra e per la gente, per Cotrone al contrario l’arte è un fatto assoluto, elitario, e deve vivere svincolata da ogni contatto con gli uomini bruti (è per questa sfiducia che il personaggio si è “dimesso dalla vita” e si è ritirato in quel luogo isolato e difficilmente accessibile). Queste due concezioni si fronteggiano per tutta la durata dello spettacolo senza approdare a una soluzione. Infatti, quell’ultimo atto che doveva sciogliere l’impasse non venne mai scritto: Pirandello si spense poco dopo la conclusione del terzo atto, dopo quella scena inquietante in cui arrivano minacciosi i Giganti per assistere alla messinscena della Favola.
Con questa produzione dei Giganti, Gabriele Lavia vara finalmente un progetto meditato da tempo, e a cui però è voluto arrivare senza fretta, gradualmente, approfondendo prima il Pirandello maturo (con i Sei personaggi del 2015) e poi quello meno noto (L’uomo dal fiore in bocca…e non solo, che ha debuttato nel 2016). L’approdo all’ultimo testo teatrale di Pirandello è dunque il frutto di un lungo studio e approfondimento di alcuni momenti salienti della produzione dello scrittore agrigentino, e lo spessore interpretativo dello spettacolo rende manifesto il lento percorso di avvicinamento a questo testo. Lavia è nella doppia veste di regista e di Cotrone, e strappa un applauso a scena aperta fin dai suoi primi passi sul palco, segno dell’apprezzamento quasi incondizionato che il pubblico nutre ormai per i suoi lavori. Oltre al Cotrone di Lavia, tra gli attori si segnalano Federica Di Martino, che ha tradotto in maniera coinvolgente le angosce del personaggio di Ilse, e Nellina Laganà, che ha saputo ammantare il personaggio della vecchia Sgricia di un carattere occulto e ancestrale. Menzione doverosa merita anche il gruppo dei “fantocci”, per i quali Lavia si è affidato a giovani professionisti: Debora Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Vona, a cui si aggiungono i volti talentuosi della compagnia teatrale iNuovi: Luca Pedron, Laura Pinato, Francesco Grossi, Davide Diamanti, e Beatrice Ceccherini (nel ruolo di Maddalena).
La produzione che ha messo in piedi vanta la collaborazione di ben tre fondazioni teatrali (Teatro della Toscana, Teatro Stabile di Torino, Teatro Biondo di Palermo) e ha il merito di ridare la dovuta centralità all’ultimo dramma pirandelliano. La scenografia, grazie alla collaborazione anche economica dei vari enti coinvolti, è in controtendenza ai gusti minimalisti degli ultimi anni, e appare opulenta e monumentale. Alla villa della Scalogna prevista nel testo si sostituisce un più emblematico teatro, che lo scenografo Alessandro Camera ha magistralmente raffigurato franto in due metà, quasi a rappresentare visivamente i due corni del dilemma meta-teatrale che anima il testo. Un rilievo che si può muovere a questa magniloquente architettura è che, oltre che come sfondo delle vicende, potrebbe essere utilizzata anche come luogo di alcune azioni del dramma, che al contrario si concentrano quasi esclusivamente nella zona del proscenio. Con ventitré attori coinvolti, il cast ha una dimensione impressionante, come è sempre più raro vedere nelle messinscene contemporanee. Il dispiegamento di tutte queste forze, tuttavia, a volte finisce per contrastare con l’atmosfera originaria del testo, in cui la tenuta degli Scalognati è descritta come una realtà desolata, ristretta a quei soli sette abitanti, piuttosto che come la comunità corale immaginata da Lavia. Assolutamente notevoli sono i costumi di Andrea Viotti, che con i loro colori sgargianti e le loro fogge bizzarre hanno il merito di restituire efficacemente le fattezze surreali e oniriche degli Scalognati (Cotrone ha in testa un fez per tradurre alla lettera la battuta in cui dice metaforicamente di essersi fatto “turco” in un mondo di “cristiani”). Anche le melodie originali scritte da Antonio Di Pofi, sospese e imprendibili, contribuiscono non poco a creare quell’atmosfera «sospesa fra sogno e realtà» e a tratti decisamente inquietante in cui è ambientata la vicenda.
A livello registico, la rilettura di Lavia mostra degli evidenti caratteri distintivi, che la candidano a un posto nella storia delle regie di questo testo. Dramma collettivo, senza un dichiarato protagonista, i Giganti sono stati letti di volta in volta come la parabola di Ilse (soprattutto la prima regia di Giorgio Strehler, nel 1947), lo scontro dialettico tra due protagonisti (la ripresa strehleriana del 1966) o il ritratto chiaroscurale del mago Cotrone (ad esempio la regia di Mario Missiroli, nel 1979). In questo allestimento la centralità è invece tutta del mago Cotrone, considerato dal regista come un alter ego dell’ultimo Pirandello. Mettendo in risalto la sua parte soprattutto attraverso una recitazione più rallentata rispetto a quella degli altri personaggi, la dizione di Lavia fa spiccare i monologhi del mago valorizzandone magistralmente le circonvoluzioni e gli snodi argomentativi. Oltre che sul ruolo di Cotrone, la regia di Lavia prende posizione anche sul complesso finale del testo. Se nelle passate messinscene dei Giganti è stato spesso ricostruito un finale tragico, soprattutto sulla base delle indicazioni lasciate da Pirandello al figlio Stefano (in quegli appunti viene detto che Ilse sarà drammaticamente uccisa dal bruto popolo dei Giganti), Lavia, al contrario, decide di arrestare la pièce su «Io ho paura», le ultime parole scritte di pugno dall’autore. Il dilemma sul senso del teatro non viene quindi risolto a favore di Cotrone, come la testimonianza del figlio Stefano lascerebbe supporre, ma viene lasciato in sospeso da Lavia, che come lui stesso ha dichiarato con quel «finale “non scritto”» vuole comunicare «una speranza, meglio, una certezza laica, che “la poesia non può morire”».
Ph. Tommaso Le Pera