Sergio Buttiglieri
Visto all'Arena del Sole di Bologna

Famiglia Calamaro

Silvio Orlando entra alla perfezione nel "capochinismo" descritto da Lucia Calamaro in “Si nota all'imbrunire". Ne è nato uno spettacolo sull'alienazione famigliare e sull'impossibilità di entrare in contatto con il prossimo

«Occorrono gli altri per farci sentire bene: o molto male o molto bene». Si nota all’imbrunire, il nuovo lavoro di Lucia Calamaro, una delle autrici, registe che più sa scandagliare il pensiero interiore di noi tutti, ancora una volta ha saputo offrirci un ritratto dei nostri complicati rapporti famigliari. Lei, con grande efficacia, definisce il suo teatro come un «teatro dell’intimità, ma non monologico, della psiche ma non psicologico».

I suoi lavori come Tumore, uno spettacolo desolato (2006), La vita ferma, sguardi sul dolore del ricordo (2016) e soprattutto L’origine del Mondo, ritratto di un interno (2012), non a caso vincitore di 3 premi Ubu, ne hanno giustamente consacrato il suo talento teatrale e l’hanno proiettata sulle scene internazionali, come ad esempio in Francia e negli Stati Uniti dove ha ottenuto ulteriori importanti riconoscimenti.

Stavolta, nella messinscena vista all’Arena del Sole di Bologna, a recitare la parte di un marito vedovo da dieci anni, affetto di “capochinismo”, come efficacemente lo descrive il figlio (il simpaticamente trasgressivo Riccardo Goretti) venuto a trovarlo assieme alle altrettanto problematiche due sorelle in occasione del decimo anniversario della morte della madre, è senza gigioneggiare, Silvio Orlando. Lui da anni vive chiuso al mondo esterno in questa villa raccontata con veli semitrasparenti di sapore giapponese. Il protagonista, in vestaglia, ci dispensa per tutto il tempo il suo arrovellato pensiero: «Oggi non mi emoziono più. In un quarto d’ora butto via le mie speranze del giorno». Pur essendo un uomo di solide letture, elencandoci i suoi autori preferiti come Hemingway, sant’Agostino, Silvia Plath, Ennio Flaiano,

si rende conto che tutto questo non basta per fare una vita. Un uomo che si è abituato all’assenza, al silenzio. Le presenze lo annoiano. Essere socievoli per lui è faticoso.

Come è altrettanto faticoso ascoltare il fratello citazionista , il bravo Roberto Nobile, che entra in scena ricordando subito quello che sosteneva Paul Valery. Una famiglia che inconsapevolmente gli occupa prepotentemente il suo eremitico spazio privato, pensando a una possibile ristrutturazione dell’abitazione, e che lui non sopporta più: «Sono infastidito dalle vostre invasioni». Anche i dialoghi delle figlie (le irrequiete e al contempo immobili Alice Rendini e Maria Laura Rondanini perfettamente a loro agio nel loro essere “scollegate”) non sono da meno: «Papà ti ho pensato. Ma non avevo niente da dirti». Il padre non sopporta la «dittatura dello stare bene» che gli vogliono imporre i famigliari più “incasinati” di lui. «Io sto bene quando sto male» dice la figlia al padre che a sua volta implacabilmente le ricorda come per lui sia una fallita e che nei suoi componimenti non sa fare altro che copiare malamente Caproni. Mentre il cinico protagonista pensa che «Il mondo non esiste! Non c’è! E se fosse solo una costipazione?». Pensa al «dolore di sentirsi da solo quando ci siete voi. Mi avete fatta una persona risentita. Io non mi diverto mai».

Il testo di Lucia Calamaro è come sempre di grande efficacia e ci riserva pensieri che inconsapevolmente ci sono purtroppo famigliari: «Che tortura averli qua: Da bambini vi ho adorato. adesso no! Nessuno sa fare il genitore di figli grandi. Poi si diventa qualcosa d’altro. I figli da grandi diventano suoceri». Orlando sa dare splendidamente voce a questi monologhi interiori che tanto hanno a che fare con quelli che a volte frullano per la testa a ognuno di noi: «Nella memoria ci sono tutti i finali dei miei pensieri. Si intuisce il pensiero ma non si capisce. Rimango appeso all’incipit dei miei pensieri. pensieri come bambole di porcellana». Mentre l’altra figlia, altrettanto irrisolta, vorrebbe essere tra la Morante e la Ginzburg, lui non vede l’ora di commemorare l’anniversario della moglie morta e nelle ultime scene il protagonista ci fa trasparire a sorpresa che i suoi famigliari, in effetti non sono mai venuti e ci svela che «Quando io ho bisogno di voi,  voi non ci siete, non siete venuti!» e si stende sulla panca lasciandoci immersi nelle sue meditazioni altamente destabilizzanti.

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