Andrea Carraro
A proposito de “I sentieri delle Ninfe”

La parola Ninfa

Il critico Fabrizio Coscia ricostruisce un paesaggio di donne-muse-amanti tra i classici della letteratura. Da Petrarca a Nabokov, passando per Ariosto e Proust (ma senza dimenticare Elena di Troia)

Il tipo di personal-essay che pratica Fabrizio Coscia – precisatosi in alcune significative pubblicazioni negli ultimi quattro anni – La bellezza che resta (Melville), Soli eravamo (ad est dell’equatore), dipingere l’invisibilesulle tracce di Francis Bacon (Sillabe), quest’ultimo I sentieri delle Ninfe (Exorma) – è particolarmente congeniale al mio gusto, alle mie aspettative di scrittore autodidatta, voglio dirlo subito, in quel suo muoversi dentro un ideale spazio comune fra le idee e i personaggi reali o letterari, messi a reagire con il proprio vissuto di scrittore-critico. Uno scrittore-critico speciale, tuttavia, «un prosatore elegante e raffinato – ha scritto di lui Massimo Onofri, «che forse ha letto tutti i libri»; questa è precisamente l’impressione, cioè di abitare, leggendolo, una casa non solo elegante, ma culturalmente vasta e solida, benché nella sua scrittura non ci siano ridondanze o tentazioni erudite; ogni parola, ogni riferimento appaiono anzi calibrati dentro una sobria economia del linguaggio e una chiarezza del discorso critico.

Se dovessimo dirlo in una formula lapidaria, della scrittura di confine di questo autore napoletano (critico letterario e teatrale del Mattino) ci piace sottolineare la “tensione conoscitiva” e la “capacità di connettere”, quel famoso only connect di Forster – solo connettere, appunto, mettere in relazione, cose opposte, antitetiche, diverse ecc. – applicato in una forma anche più estensiva. A questo proposito, notiamo, verso la fine del libro, un isolato affondo polemico contro ogni «ridicola pretesa di realismo», contro quella «stucchevole convinzione che la funzione della letteratura sia quella di raccontare storie verosimili…». Ora, vediamo anche noi i rischi odierni di una sovraesposizione dello storytelling ai fini dell’intrattenimento, in ogni ambito, non solo in quello letterario (oggi si pretende la narrazione di qualunque cosa!), ma non siamo del tutto convinti che la narrazione romanzesca di ispirazione realistica in quanto tale abbia esaurito definitivamente la sua funzione all’interno della forma-romanzo, di una forma romanzo evidentemente aggiornata ai tempi, magari contaminata nei generi e con le altre espressioni artistiche, ecc. Ma rimandiamo ad altra sede la questione (di teoria del romanzo) e passiamo senz’altro al libro. Che romanzo in senso stretto non è, ma del romanzo ha l’interesse per il personaggio e la capacità di movimento, ottenuta proprio da quel only connect che si diceva.

I sentieri delle ninfe – nei dintorni del discorso amoroso – edizione assai curata con utili inserti fotografici in bianco e nero – si concentra, come dice lo stesso titolo, sul discorso amoroso, e più precisamente sull’universo delle Ninfe, sull’amore ninfale, per sua natura – ce lo racconta l’autore in numerosi e argomentati esempi – fuggitivo, volatile, perduto, – incarnato in alcuni personaggi femminili reali o immaginari, partendo dalla compagna dello scrittore, a cui è dedicato il libro, “a Linda, ninfa compagna musa amica”, quasi a suggerire che senza di lei forse il libro stesso non sarebbe mai nato. C’è anche una sua fotografia, o meglio una fotografia delle sole gambe di Linda, che l’autore descrive con l’occhio rapito, innamorato, già “preda delle ninfe”, con sensibilità da ritrattista – la sua opera prima, Notte abissina, Avagliano, 2005, ricordiamolo, era un romanzo – in uno dei primi capitoli: «Due gambe magnifiche, lunghe, magre, i piedi grandi e snelli, dal collo sottile, un ginocchio leggermente piegato rispetto all’altro, che è teso, le cosce che s’indovinano sode e nient’altro, se non un grigio muro scrostato dietro e un ritaglio di pavimento di mattonelle uniformi». «Due gambe magnifiche», che rimandano a quelle di Dora Markus agli occhi di Bobi Bazlen e poi di Montale, che ci scrisse su una celebre poesia, proprio come l’amico gli aveva suggerito («FALLE UNA POESIA!») nella breve letterina che accompagnava la foto della donna. Dora Markus è una delle prime figure ninfali che appaiono in questo racconto, con l’immagine delle sue “gambe magnifiche”, che hanno irretito, catturato, e infine ispirato il poeta.

E poi l’Albertine della Recherche, dalla prospettiva morbosamente innamorata e gelosa del Narratore di quel meraviglioso romanzo, così come appare la prima volta nel secondo volume dell’opera, interamente dedicato proprio all’amore ninfale, All’ombra delle fanciulle in fiore, con quelle giovani ninfe che fioriscono quasi per magia sul lungomare assolato di Balbec, durante il primo soggiorno estivo del protagonista: «l’apparizione della ragazza – scrive Coscia – nel gruppo delle fanciulle in fiore resterà indelebile nella memoria del Narratore e in quella di tutti i lettori della Recherche».

Confermiamo, da lettori. Quello è uno dei momenti più commoventi e forti del romanzo e forse uno dei momenti più alti della letteratura di ogni tempo, ma lasciamo la parola al critico: «Marcel è davanti al Grand-Hotel di Balbec, in attesa della nonna, quando vede all’estremità della diga “avanzarsi cinque o sei ragazzine, tanto diverse, per aspetto e comportamento da tutte le persone cui eravamo avvezzi a Balbec, quanto, sbarcato da chissà dove, uno stormo di gabbiani che avessero compiuto piccoli passi sulla spiaggia… Non c’è alcun dubbio che le petite bande delle fanciulle in fiore sia, in effetti, un gruppo di Ninfe moderne, la loro natura di volatili le apparenta alle Ninfe dell’aria, come le sette Pleiadi, trasformate in colombe (e infine immortalate in stelle)…».

Intrecciata ad Albertine, e ad essa apparentata quasi come una sua ideale filiazione, la Lolita di Nabokov, in un altro romanzo capitale del Novecento, la meravigliosa ninfetta dodicenne, Dolores Haze, agli occhi innamorati e rapiti e gelosi del 40enne professore di francese Humbert Humbert (anch’egli, come il Narratore proustiano, come l’autore, “preda delle ninfe”, nympholeptos) ma in un contesto socialmente e moralmente scandaloso; «Humbert riconosce subito in lei quella ”natura non umana, ma di Ninfa (vale a dire demoniaca)” che ammalia con il suo fascino luminoso. (…) La genialità di Nabokov, la grandezza di questo libro sono nella capacità di restituire la perversione di un pazzo in una delle più radiose luci erotiche della storia della letteratura».

E ancora, ecco apparire sullo sfondo di questa polifonica, rapsodica narrazione (fatta di tanti microracconti che si rincorrono, si intrecciano), un’altra Ninfa, un altro “essere in fuga”, la Laura petrarchiana, definita dal poeta stesso, dal Petrarca, “inespugnabile”: «proprio come Dafne – ragiona e “connette” Coscia – che per conservare la sua verginità minacciata da Apollo, grazie all’intervento del padre Peneo, si trasforma in una pianta di lauro». L’autore non manca mai di appoggiarsi sulla mitologia antica, in tutte le sue molteplici espressioni/suggestioni, – fra musica, letteratura, arte figurativa, teatro, cinema – risalendo alle origini del mito delle ninfe, e della nostra civiltà – e il saggio procede in un continuo rimbalzo fra tempi diversi, e trasversali rimandi, come a suggerire l’idea di un continuum – nel solco della tradizione occidentale. Dall’Angelica dell’Ariosto a Elena di Sparta nelle narrazioni omeriche, da Tadzio, l’adolescente di cui si invaghisce il vecchio musicista di Morte a Venezia, all’Enea che fugge da Cartagine abbandonando Didone, dalla Venere botticelliana attraverso lo schermo analitico dello studioso Aby Warburg, un personaggio tragico raccontato per tasselli biografici successivi all’apparizione ninfale liquida nel celebre film l’Atalante di Jean Vigò, dalle ninfe che “sono partite” nei versi di La Terra Desolata, alla Miranda, la ragazza scomparsa di Picnic a Hanging-rock, dalla “donna che visse due volte” nel capolavoro Vertigo di Hithcock, alla misteriosa Marthe, ripetutamente ritratta dal pittore Bonnard (ce ne sono diversi riprodotti nel libro), perlopiù nuda, in ben 384 ritratti (“la donna più dipinta nella storia dell’arte”), che manterrà celata a lungo, per 30 anni, la sua vera identità, e la sua età, al pittore. E altre figure di ninfe tentatrici, di femme fatale, di “fantasma erotico”, di imago, che ritornano a più riprese nel corso del libro, quasi passandosi di volta in volta il testimone, disegnando alla fine la mappa “di un archetipo della perdita e dell’assenza”. Perché di questo si tratta, ci viene da concludere, richiudendo il libro e indugiando per un momento sui versi di Antonio Poliziano posti nella quarta [la ninfa non si cura dell’amante/(…)/ ella fugge da me sempre davante..], la Ninfa, in qualunque forma si presenti, tende a fuggire, a sparire, a lasciarci, come un miraggio, come una meteora. E non è proprio questo che cerchiamo affannosamente nell’arte riguardo al sentimento amoroso: e cioè la rappresentazione sublimata di una perdita, di un lutto?

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