Al Piccolo Eliseo di Roma
Nel regno delle madri
Torna in scena "Regina madre", uno dei testi più riusciti di Manlio Santanelli. Una guerra tra generazioni per sconfiggere la realtà a colpi di sogni e restare per sempre prigionieri dei giochi d'infanzia
La compagnia che porta il nome di Luca De Filippo – diretta, ora, da Carolina Rosi – da qualche anno, oltre a rinnovare i fasti del repertorio di Eduardo, si dedica meritoriamente alla rilettura di testi peculiari di quella stagione creativa del teatro napoletano andata sotto il nome di “dopo Eduardo”. È toccato, un paio di stagioni fa, alla riproposizione di Bordello di mare con città di Enzo Moscato e tocca, adesso, a Regina madre di Manlio Santanelli, in scena al Piccolo Eliseo. In entrambi i casi, la regìa porta la firma di Carlo Cerciello e vede in scena Imma Villa, vale a dire due garanzie di eccellente qualità. E, del resto, se la rilettura del testo di Moscato finiva per metterne in evidenza qualche limite o anacronismo, quella della celebre opera di Manlio Santanelli strappa dalla memoria il ricordo di una memorabile edizione del medesimo copione, al suo debutto, nel 1985 con Regina Bianchi e Roberto Herlitzka protagonisti.
In scena ci sono madre e figlio, più litiganti che dialoganti, sopra uno sterminato lettuccio da bambino, contornato da giochi e marionette (la bella scenografia è di Roberto Crea, benissimo illuminata da Cesare Accetta). Regina, la madre, è tale di nome e di fatto: Imma Villa la rende una macchina da guerra che infila parole una dopo l’altra senza dare tempo all’interlocutore di porre in mezzo dubbi o contestazioni. Alfredo, il figlio, è reso debole e nevrotico da Fausto Russo Alesi. Il rapporto tra i due è controverso, morboso. Regina è ammalata, forse terminale; Alfredo – giornalista e scrittore sconfitto dalla sua fragilità – decide di assisterla e, al tempo stesso, di testimoniarne la morte in un libro-verità che possa riscattare – forse – la sua medietà, per non dire la sua mediocrità. Ma, come sempre nel teatro di Santanelli, il piano di realtà declina rapidamente nel sogno. O nell’incubo. Sicché i fantasmi dell’una e dell’altro si materializzano in scena in un continuo scambio di ruoli e di bugie, quelle che i due si raccontano in continuazione. Al punto che non si sa mai che cosa ci sia di vero, nel rapporto tra madre e figlio, e che cosa di puro rancore: perché, sempre come sovente capita nei testi di Manlio Santanelli, è la cattiveria a mandare avanti l’azione. Cattiveria esercitata su di sé come sugli altri. I personaggi, infatti, scaricano uno sull’altro frustrazioni e delusioni, trasformando le illusioni in sogni reali. È ciò che fa di Santanelli, dal suo debutto teatrale all’inizio degli anni Ottanta con Uscita di emergenza, non solo uno dei nostri massimi drammaturghi, ma anche uno dei pochi che abbiano colto il senso della lezione del cosiddetto realismo magico di Garcia Marquez; ossia l’ultimo, vero impeto creativo che abbia scosso dal torpore la scrittura occidentale della fine del secolo scorso.
Lo spettacolo in scena al Piccolo Eliseo, dunque, è di quelli da non mancare. Carlo Cerciello, come sempre fa, parte da un’idea legata alla gestione dello spazio: il grande lettuccio da infante che domina la scena e al quale mamma e figlio via via mettono le sbarre (tipiche di quei letti/protezione) ci rimanda all’idea di un gioco drammatico nel quale Regina conserva Alfredo in una condizione di eterno bambino incapace di crescere: la crisi di lui deriva dal fatto che quando vorrebbe mettere a frutto la propria nevrosi da inguaribile Peter Pan affidandosi tutto alla fantasia (e facendosi scrittore, dunque) scopre che quel gioco gli è precluso perché sempre la realtà della madre supera la fantasia. Non basta una bella bugia a rendere sopportabile la vita. Dal canto suo, Imma Villa sembra aver introiettato la lezione di Regina Bianchi e Isa Danieli (le due attrici che l’hanno preceduta in questo ruolo) riuscendo a cantilenare un napoletano da aristocrazia in esilio (la lingua splendida e tipica di Santanelli); ma poi aggiunge ruggiti da donna fragile e perduta che dànno al suo personaggio una forte dimensione contemporanea (e le musiche di Paolo Coletta, che trasformano il carillon dei bambini in un presagio inquietante seguono il medesimo percorso). A tutto ciò, si aggiunge la buona prova di Fausto Russo Alesi, un Alfredo sempre in cerca di una scusa per giustificare il suo vittimismo di bambino mai cresciuto né troppo considerato dal mondo.
Insomma: un pezzo di teatro come se ne vedono di rado, fatto di invenzioni, idee e grande tecnica. Che cosa si può volere di più in questo periodo così modesto per la scena italiana?