Alla galleria Lombardi di Roma
L’artista selvaggio
Riflettori su Piero Mascetti, sulla sua atipicità rispetto al mercato dell'arte e sulle svolte della sua nuova produzione. Verso la frontiera dell'informale, liberandosi una volta per tutte da ogni condizionamento esterno
Nella tribù dei pittori romani, tra quei branchi di randagi a vocazione certificata che dividono e si contendono le briciole di un mercato asfittico e si ritrovano alle mostre per annusarsi a vicenda e capire l’aria che tira, Piero Mascetti è guardato come una sorta di sciamano. Ogni mostra come un rito di condivisione che non sai mai che sorpresa riserva. È successo anche all’ultima personale con cui la galleria Lombardi di via di Monte Giordano 40 di Roma porta in scena fino al 20 marzo i suoi ultimi lavori.
La ragione prima è nella sua selvatica biografia. La storia di un ragazzo di borgata, esperienza da pugile e di risse da strada alle spalle, che una ventina di anni fa si improvvisa, da autodidatta, pittore e riesce a bruciare le tappe, collezionando stima e attestati da firma di rango: non sembra il racconto di un miracolo?
Di miracoli Piero Mascetti, che ormai ha superato da un pezzo la soglia dei cinquant’anni, non ne ha più fatti né ottenuti, scivolando ingiustamente come tanti altri compagni di generazione e di avventura, nella palude di un’attenzione a singhiozzo che, a chi come lui vive solo del suo lavoro, garantisce grama sopravvivenza. Ma a ridestare attese e curiosità ad ogni sua apparizione in pubblico gli è rimasta, intatta, la forza trascinante e contagiosa della sua pittura, che sfugge alle definizioni scolastiche.
Mascetti non è un artista di tradizione, anche se usa con orgoglio le istruzioni per l’uso che gli ha trasmesso un pittore vicino di casa, da cui è stato da ragazzino a bottega: la preparazione degli impasti per la base della tela, l’uso esclusivo dei colori ad olio, e un’ammirazione devota per i grandi maestri del passato, di cui ha studiato i capolavori con passione. Non è un pittore figurativo perché la maglia della figura, da cui pure è partito, gli è sempre stata stretta. E non è un pittore informale di pura gestualità perché nei suoi quadri (a parte, a volte, il ricorso ad espliciti riferimenti iconici) c’è sempre la briglia d’un impianto riconoscibile.
La bussola per orientarsi in questa miscela di apparenti contraddizioni è, però, semplice: Mascetti è un artista che si riconosce totalmente nel potere poetico e introspettivo della pittura, una sorta di linfa creativa che sgorga attraverso la sua mano, portando sulla tela, quasi senza filtri, il flusso della sua vita più profonda, il modo spesso inconsapevole con cui reagisce al mondo che lo circonda, ne registra le impressioni attraverso sensori del tutto istintivi.
Mascetti, insomma, tiene attraverso i suoi quadri un diario continuamente aggiornato o dei suoi riflessi emotivi. E fissa i suoi stati d’animo sulla tela come paesaggi, visioni frontali, che non dipinge dal vivo, en plein air, ma nello scantinato del suo studio, come ricordi che ripercorrono a ritroso la strada dei sensi, voci, musiche, odori. Poi, per impedire che volino via come foglie al vento, riempie quel materiale così friabile e gassoso di corpi solidi che galleggiano, si urtano, sfrecciano via. E, a chi osserva i suoi quadri, offre come appiglio per reggere l’impatto di quei corpi in collisione l’aiuto ironico di un titolo spesso improbabile, ma anch’esso impregnato di una cifra creativa.
Esemplari i titoli di questa mostra. A partire da quello che battezza l’intera esposizione. Parabellum, il nome di un proiettile. L’idea era di allestire un campionario di piccoli quadretti, venti per venti, che ora ci guardano in galleria come piccoli occhi sgranati su un’intera parete. Opere da completare in fretta con pochi segni e pochi tocchi. Ma sì, perché non chiamarli come pallottole che l’artista ci spara contro a raffica, senza mirare.
Al posto della polvere e del cilindro di piombo altri titoli, che li connotano ad evocare occasioni e sensazioni quotidiane. Un raffreddore: vicky maaolox. Un bicchiere in più a pranzo: punch drunk. Il conforto d’un camino acceso: stanza calda. Molti titoli sono in inglese, una lingua che Mascetti mastica poco e male. Bull, Driver, animal, ballad. Suoni tirati giù a orecchio con assonanze bizzarre che comunque ti tendono una mano, ti trascinano dentro come certi ritornelli onomatopeici delle canzoni di Paolo Conte.
Tra tanti titoli trompe l’oeil uno solo mi sembra davvero calzante: Hoxygen. È quello trovato per il quadro più grande, uno schermo di tre metri per due, che domina la parete d’ingresso. Ed è la novità più vistosa di questa mostra. Ossigeno. Una ventata d’aria come quelle – racconta in catalogo lo stesso Mascetti – che di tanto in tanto irrompono nella caverna senza luce diretta del suo studio e portano dentro aria fresca di vita. Stavolta più che un refolo deve essersi trattato di una tempesta. Un’irruzione così forte che nel quadro mette tutto in subbuglio. I volumi netti in cui lui stesso ancora umori così mercuriali sono completamente sfaldati. Il bianco sfrangiato si insinua ovunque a spezzare i collanti sottili dell’arancione, del rosso, le modulazioni del nero, come una tromba d’aria in cui vorticano schegge di senso e nonsenso. Un assolo stridente di free jazz che ti inonda lo sguardo di ritmo, lo invita a ballare.
Mai Mascetti si era spinto tanto in là, lungo le frontiere dell’informale, togliendo forma con lo stesso sollievo con cui ci si toglie un dente che duole. Cancellando quella quadratura da ring, sulla quale con automatismo e rimpianto da ex pugile aveva sempre messo in scena i suoi corpo a corpo con la pittura. Sembra di trovarsi di fronte ad una mensa non sparecchiata, dove dei piatti portati in tavola non restano che avanzi spolpati. Ottimo l’appetito, buoni i sapori. Sul disordine prevale il benessere e l’appagamento di chi ha partecipato. Ecco accontentati i suoi amici di pennello, venuti a misurare il collega-rivale Mascetti, specie quelli che lo hanno rimproverato di non tentare altre strade, rifare sempre lo stesso quadro: in casa Mascetti tira aria nuova.
Ma la mostra offre nelle opere di contorno altri segnali di cambiamento, di strada in corso di costruzione che chissà dove porterà. Li si coglie se ci si concentra sulle macchie bianche che dominano l’impianto di ogni lavoro. La stesura a tocchi di spatola e lo strato di colore sono diventati più densi e più spessi, il cuore attorno cui sembra ruotare l’intera visione. Occupano lo stesso spazio che prima era segmentato in partiture più amalgamate e sfumate. Ora rese così in rilievo quelle tracce aggettate sembrano scheletri di corpi dissolti. Fossili di spine dorsali, arti. Le impalcature di una forma che ha preso altra forma. E si oppone al vortice di movimento in cui resta inserita. Non vuol più sedurre. O forse ha capito che il tempo è più selvaggio di lui.