Flavio Fusi
Cronache infedeli

Ultimi angeli

La tragedia delle cooperanti morte nell'incidente aereo in Etiopia rimanda alla memoria la terribile storia di Paola Biocca, morta vent'anni fa in Kosovo in condizioni simili...

Guardo, sulla prima pagina dei giornali, le foto di Pilar, Rosemary e Virginia, le ragazze del World Food Program: la gioventù e la vita, semplicemente. Guardo, sugli schermi televisivi, quel campo brullo dove si è schiantato l’aereo, i resti disseminati sotto il vento caldo che gonfia i sacchi e strappa le inutili barelle delle squadre di soccorso.

Venti anni fa – mi accorgo ora che sono passati venti anni – lo stesso paesaggio inospitale, la stessa liturgia di morte. Mattina del 12 novembre 1999: un aereo del Programma alimentare mondiale dell’Onu, decollato da Ciampino con 24 persone a bordo e diretto in Kosovo, precipita a poche miglia a nord di Pristina, in una zona minata che rende difficile il recupero dei corpi.

La mia troupe Rai era a Belgrado a documentare l’agonia del regime di Milosevic, e dunque toccò a me, quel giorno, attraversare in auto tutta la Serbia, passare l’incerta frontiera con il Kossovo, raggiungere a tarda sera il luogo del disastro. Sapevo cosa avrei trovato. Tra le vittime, undici italiani, e tra gli italiani Paola Biocca: donna coraggiosa, giornalista e cooperante, portavoce del Wfp, amica.

Avevo conosciuto Paola pochi mesi prima, nei campi profughi, tra le tende bruciate dal sole e marcite dall’acqua, nelle file per il rancio, nelle processioni rabbiose e disperate dei contadini serbi cacciati dal Kossovo. Quando finisce una guerra restano sul campo gli indifesi, i deboli, i senza riparo, quelli ingannati dalla propaganda, quelli mandati al macello e poi abbandonati dai potenti in fuga. E nel nostro lavoro – giornalisti, testimoni, compagni di viaggio – si diventa amici condividendo le giornate con questa umanità dispersa. Così io e Paola eravamo diventati amici, senza quasi conoscerci e certamente senza dircelo.

Nel mio viaggio verso Pristina, quel giorno, andavo dunque a salutare per l’ultima volta un’amica. E la fine della guerra in Kossovo è stata sempre per me l’addio a Paola Biocca. Ho scoperto soltanto dopo la storia di questa ragazza sorridente: il suo lavoro coraggioso per Amnesty International e per Greenpeace, il suo impegno nella campagna italiana contro le mine. Scriveva: “Bisogna stare dalla parte dei poveri, dei diseredati, di chi non ha nulla. Dobbiamo parlare di loro perché il mondo sappia…”.

Ho scoperto soltanto dopo che Paola era una scrittrice matura e promettente, che un anno prima di morire aveva vinto il premio Calvino per l’opera prima con il suo romanzo Buio a Gerusalemme. E ho scoperto molto dopo e per caso, camminando per le strade del quartiere Testaccio di Roma, che a lei è dedicata una scuola dell’infanzia. E il suo nome sta lì, scritto accanto al portone, in mezzo alla festa dei bambini che entrano correndo ogni mattina.

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