Visto al Teatro Sala Umberto di Roma
Francamente Pop
Grande successo per la tappa romana dello spettacolo “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, andato in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano a fine 2017. Alla regia il collaudato duo formato da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, che rilegge il classico di Oscar Wilde in chiave pop
The Importance of Being Earnest, l’opera teatrale probabilmente più famosa di Oscar Wilde, debuttò al St. James Theatre di Londra il 14 febbraio 1895. Quella prima registrò un clamoroso successo, sia di critica sia di pubblico, e a parte qualche sorprendente eccezione (celebre la reazione fredda di George Bernard Shaw, seduto in sala quella sera) consegnò il testo a una fortuna duratura, mai offuscatasi in tutto il secolo successivo. La frizzante commedia ha infatti conosciuto innumerevoli riprese, tra le quali si contano anche le due ottime trasposizioni cinematografiche, quella curata da Anthony Asquith nel 1952, additata da molti critici come uno dei più riusciti passaggi from stage to screen, e quella più recente con Colin Firth e Rupert Everett nei ruoli dei protagonisti Jack e Algy e una superba Judi Dench nel ruolo di zia Augusta. La sua fortuna di lunga durata ha svelato come questo society drama vivace, brioso e ben calibrato, sia un dramma senza tempo, tanto immerso nell’atmosfera della Londra vittoriana quanto in grado di parlare a tutte le epoche successive, fino ai giorni nostri. Per una tragica coincidenza, però, a questo importante riconoscimento seguì presto per Wilde il periodo più drammatico della sua vita: solo un mese dopo la fine delle recite di Ernesto, infatti, iniziò il primo dei tre processi intentati contro di lui, che nel novembre di quell’anno gli costarono una condanna a due anni di carcere e lavori forzati per gross public indecency – o meglio, per la sua omosessualità.
La regia dell’Importanza prodotta dal Teatro Elfo Puccini di Milano porta la doppia firma di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, che con questo lavoro giungono al loro quarto appuntamento con l’opera dello scrittore irlandese. I due sono già noti al pubblico per Salomé, Il fantasma di Canterville e – da ultimo – il primo allestimento italiano di Atti osceni, l’opera teatrale di Moisés Kaufman che tratta proprio della triste vicenda giudiziaria dell’autore di Ernesto e che ha debuttato al Festival di Spoleto nel luglio 2017. In questa versione di Earnest, la coppia di registi trasporta la vicenda dalla fine dell’Ottocento agli Anni Sessanta, che appaiono immediatamente riconoscibili grazie all’ottimo lavoro su scene e costumi condotto sempre dai due registi.
La stanza interamente bianca che fa da sfondo alle scene fa stagliare in tutta la loro veste iconica alcuni degli oggetti più tipici di quel periodo: la celebre lampada da terra Arco del designer italiano Pier Giacomo Castiglioni (1962), l’avveniristica Ball chair di Eero Aarnio degli stessi anni, e una rielaborazione della tela manifesto della pop-art, Just What Is It that Makes Today’s Homes So Different, So Appealing? (nella foto a sinistra) di Richard Hamilton, a cui viene ironicamente aggiunta una foto dello stesso Wilde. L’operazione registica non va confusa però come una semplice attualizzazione del dramma, una mera traslazione temporale della sua vicenda. La trasposizione mira infatti più emblematicamente a sottolineare la dirompente modernità del testo (e del suo autore), che con la sua feroce satira dell’alto-borghesia vittoriana sembra anticipare proprio la rivoluzione culturale anti-tradizionalista degli anni Sessanta.
Dietro il geniale umorismo e gli infiniti giochi di parole di questa “trivial comedy for serious people”, si legge infatti una critica spietata all’establishment borghese del tempo, per il quale l’importanza di chiamarsi è superiore a quella di essere qualcuno, l’apparenza regna sulla sostanza, ed è la moda a segnare il discrimine tra bene e male. L’ipocrisia e la superficialità borghesi vengono irrise da Wilde dall’interno, utilizzando le parole stesse di questo ceto in maniera da suscitare degli inevitabili effetti comici. Se John ha la “colpa” di vivere nel lato demodé di una piazza, zia Augusta si incaricherà presto di dettare un cambio nella moda, Algernon non sarà mai un buon partito se non dimostrerà che il suo nome è Earnest, il reverendo si compiace di scrivere sermoni così vuoti di contenuto da essere validi tanto per un battesimo quanto per un funerale. Nella versione di Bruni e Frongia l’effetto comico e satirico è assicurato grazie a un cast di altissima qualità, in cui tutti gli interpreti si segnalano per la loro perfomance eccellente. Dalle pose enfatiche e i capricci infantili di Gwendolen e Cecily (rispettivamente Elena Russo e Camilla Violante Scheller), ai tic del pastore Chasuble (un esilarante Luca Toracca), dalla camminata inconfondibile della Zia Augusta (una irresistibile Ida Marinelli) ai tratti isterici di Miss Prism (Cinzia Spanò), tutti i protagonisti di questo mondo sociale appaiono perfettamente scolpiti nei loro tratti di pochezza intellettuale e vanità mondane. La comicità procede irrefrenabile attraverso la scoppiettante successione di arguzie e frasi fatte sciorinate dai singoli personaggi e risulta del tutto encomiabile l’abilità del gruppo nel mantenere un ritmo serrato per tutte le due ore dello spettacolo.
Menzione a parte meritano i due protagonisti dell’opera, il John Worthing di Giuseppe Lanino e l’Algernon Moncrieff di Riccardo Buffonini, accomunati dalla ricerca di un’ereditiera da sposare e dalla condivisione di una seconda identità nascosta. Tirati a lucido nei loro gessati multicolori, i due protagonisti con la loro parlata affettata e i gesti civettuoli diventano due dandy anni Sessanta che rivendicano la loro vita libera e fuori dagli schemi borghesi. Se, come affermano gli autori, l’Importanza è anche un testo “che strizza l’occhio all’ambiente omosessuale dell’epoca e ai suoi sottintesi e sottotesti”, gli John e Algy di questa produzione tradiscono in effetti nei loro atteggiamenti degli evidenti tratti queer (nel primo atto intonano anche I will survive di Gloria Gaynor, noto inno della comunità gay). Possibili proiezioni dello stesso Wilde, i due viveurs vengono quindi a incarnare il prototipo di chi, proprio perché non in linea con i rigidi schemi della normatività borghese, riesce a cogliere ipocrisie e sterili convenzioni di quella società e a scardinarle dall’interno.
Lo spettacolo del Teatro Elfo, riproposto nella Sala Umbero di Roma, ha quindi il merito di suggerire anche una possibile chiave di lettura autobiografica di questo testo (la fotografia di Wilde campeggia non a caso come sfondo di tutte le scene), arricchendone il senso con nuove prospettive. Quello che rimane, oltre al riso, è quindi anche la riflessione sulla parabola dell’autore che, dopo aver messo a nudo così lucidamente il conformismo perbenista, ne avrebbe patito in prima persona il risvolto più tragico.
Ph. Laila Pozzo