Un'anticipazione dal libro "A Sud del Sud”
Leopardi a Capo Horn
Esce in libreria un bel reportage del nostro Nicola Bottiglieri: un viaggio alla fine del mondo, a Capo Horn, per guardare l'infinito e recitagli la celebre poesia di Giacomo Leopardi. Una sfida delle parole alla natura
Ad alta voce dissi: “Albatros, petrelle, pinguini ed uccelli pelagici tacete ed ascoltate. Allungate i colli nel cavo del vento, aprite le orecchie acque e siepi, dilatate le fessure pietre antartiche perché ora ascolterete una poesia che farà brillare di felicità l’ultimo angolo del mondo. Perché essa fu scritta anche per voi, in questo dilatato mare, e se ascoltate bene, capiremo insieme i significati che essa riscuote, che nessun altro ha capito mai, perché nessun altro la ha mai recitata davanti al pubblico eletto quale voi siete. Chiamate i fratelli, gli amici e i parenti e per un momento, solo un momento, si fermi la natura, ed ascoltiamo le parole immortali.”
A quel punto il vento come un colpo di martello cadde, il mare si spianò come se un ferro da stiro l’avesse stirato, gli albatros richiusero le ali e la pioggia si inscatolò nella botte del dio delle piogge.
Cominciai a recitare con le mani in tasca, anzi per rendere più plausibile il terzo verso le ginocchia si piegarono un po’, ficcando ancora più in dentro la testa nel fosso, fino ad avere davanti agli occhi un arbusto spinoso che faceva le veci della siepe di Recanati. Senza nessuna pietà verso me stesso, recitai a perdifiato:
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio…».
L’ultimo verso non mi era uscito dalla gola. Mentre gli altri erano venuti alle labbra come dignitari in parata, l’ultimo non volle partecipare al corteo. Non c’era da rammaricarsi del resto, era assurdo affermare e naufragar m’è dolce in questo mare a Capo Horn quando vi erano stati infi niti naufragi nel corso dei secoli e sotto le acque giacevano più relitti che centollas! L’ultimo dignitario, che altro non era se non l’imperatore della corte formata da quattordici versi, non era uscito dai suoi appartamenti ed era rimasto a dormire.
Finita la poesia, mi accorsi che diventavo sempre più sottile, più leggero, più giovane e magro, anzi mi sembrava di sollevare il corpo in volo. E la cosa non mi sembrò affatto strana ma bella e naturale, come se fosse il punto d’arrivo del mio viaggio.
Mi ficcai ancora di più il cappello in testa, strinsi la sciarpa, la cinghia dei pantaloni (perché sono quelli che scappano via subito quando si vola) aprii le braccia, e ad occhi chiusi mi lasciai trasportare. Era bellissimo perché stavo facendo quello che mi aveva suggerito l’oscuro re che aveva il suo regno alla ne del mondo, il canale Beagle. Anche se avevo sostituito l’aereo Saturno con le mie braccia aperte. Sentivo il vuoto fuori e dentro di me, vedevo i sei lati del mondo, come se quel momento, il corpo e il Capo fossero tutta la mia vita chiusa in un istante.
A cento metri sopra il canale di Drake, che batteva con bianche frustate la scogliera, il panorama era commovente, come guardare la Terra dalla Luna. Davanti a me, direzione Polo sud, l’ignoto mare, mentre a sinistra gli scogli a sega dell’isola Deceit, a destra, più arretrata, l’isola Hermite. Era proprio vero che Dio aveva fatto la fine del mondo buttando a casaccio nell’oceano quello che gli era restato dalla settimana di lavoro precedente!
Cominciai a nuotare a rana verso sud, perché fra nuotare e volare non c’è molta differenza. E come succede che quando si nuota si beve l’acqua, così volando bevevo la pioggia a piccoli sorsi, battendo i piedi, in modo da arrivare al primo orizzonte a portata di mano e subito dopo dirigersi verso un altro orizzonte più avanti, proprio come faceva l’autista del tratto Punta Arenas-Puerto Natales.
Fatto quasi un chilometro, vincendo il freddo, ingoiato tutto il vuoto che avevo intorno, quando ero già un batuffolo di garza perduto fra nuvole e cielo, sentii il peso della stanchezza. Dove andare? Se non c’erano altre isole davanti a me per 1000 chilometri valeva la pena volare ancora? Andare più in alto? Nelle profondità del cielo a vedere le carcasse degli aerei naufragati nel vuoto, come sotto le profondità dell’oceano vi erano le carcasse delle navi perdute? Oppure potevo arrivare all’isola Diego Ramirez, dove nessuno mi aspettava, perciò i pescatori che l’abitavano non avrebbero accolto bene un turista che arriva dal cielo volando, senza avviso, portando con sé bacilli, virus, malattie conosciute e sconosciute. L’isola Deceit era molto vicina, ma anche essa non mi sembrò un buon approdo. Era uno scoglio battuto dall’oceano e sferzato dalla pioggia, e come l’acqua senza memoria. L’unica cosa sensata era ritornare al Capo, cosa che feci, perché il vento mi aiutò a rientrare, mettendomi sulla perpendicolare del promontorio, come lo vide el condor de plata von Plüschow nel 1922, il primo a vedere il Capo dall’alto.
Giunto sulla perpendicolare, trovai una nuvola e appoggiandomi ripresi fiato. Quando mi guardai intorno, vidi, come se fossero nel palmo della mano, Punta Arenas con il cimitero, la sirena a due code, l’albergo dove avevo alloggiato, Puerto Natales, la Cueva del Milodón, con lo scrittore Bruce Chatwin che si mette gli scarponi al collo, l’estancia San Gregorio, Puerto del Hambre, la tomba dell’indio desconocido, l’isola Dawson, il Monte Sarmiento, il labirinto dei canali della Terra del Fuoco, la Terra dei Fuochi fra Napoli e Caserta, Ushuaia, Puerto Williams e le villette dei militari sull’attenti, il bar di Loreto, Wulaia e dintorni. Temetti di cadere per la vertigine, però mi appoggiai ad una nuvola gonfia d’acqua e grandine e potei vedere, sotto il mare viola pettinato dal vento, il nero fondale ricoperto di alghe giallastre, le quali nascondevano la visione dei cinquecento relitti affondati, ai quali si erano aggiunte le due valigie naufragate.
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Tratto da A Sud del Sud, Robin Editore, 15 euro.