Visto al Fabbricone di Prato
La confessione di Jan Fabre
Il nuovo spettacolo del divo dell'ultima avanguardia, Jan Fabre, è uno straziante monologo autobiografico interpretato magistralmente da Lino Musella. Le confessioni di un artista drammaticamente in cerca di libertà
Con il suo nuovo spettacolo The Night Writer («Giornale notturno», visto alla Sala 2 del Fabbricone di Prato) il regista belga Jan Fabre – questo mitico, poliedrico personaggio teatrale e artistico, tra i più vitali del nostro tempo – ha saputo mettersi a nudo, raccontando la sua contradittoria, provocatoria e visionaria esistenza, attraverso un lacerante monologo interpretato magistralmente da Lino Musella.
La scena è essenziale, quanto piena di fascino. Ci troviamo in semioscurità, con una distesa di candido sale marino che ricopre tutto il palcoscenico. Scorgiamo, conficcate a terra, 4 simboliche piccole pietre e al centro della scena una piccola scrivania col piano in vetro, e il protagonista che, ininterrottamente per tutta la performance, fuma, sgranocchia uva e noci e si versa da bere. Sopra al tavolo pende una piccola iconica lampadina ardente, dal sapore rinascimentale che tanto ci ricorda l’uovo sopra alla Madonna della celebre Pala di Montefeltro di Piero della Francesca esposta in Brera. E infatti il monologo inizia così: «La bellezza, quando crea confusione ed è sovversiva, annuncia sempre un messaggio di riconciliazione. Ogni vera bellezza è scomoda». Per poi proseguire con il protagonista che a sorpresa canta Amarsi è una fatica, una canzone di Gianna Nannini, coinvolgendoci a cantarla in coro assieme a lui.
E qui inizia un flusso di coscienza alla James Joyce che ci attraversa visceralmente per tutto il monologo. Il suo dichiararsi un errore perché vuole essere un errore. Perché non vuole appartenere ad alcuna razza. Perché acerrimo nemico di se stesso, perché non vuole avere alcun legame con la civiltà contemporanea: «Perché fallisco in tutto, perché sono possibilità, perché sono un fascio di nervi, perché sono un bastardo». Le riflessioni di questo artista dalla curiosità senza limiti sono intense, colme di laceranti retrogusti esistenziali: «Talvolta è un peccato morire in tempo, Amo il movimento dei colori che si confondono». Assistiamo al suo vivere scollegato dal giorno: «Perché non dormo? Solo di notte riesco ad essere chi sono. Il mio cuore è una droga pericolosa. Le notti sono troppo brevi». Al suo essere scollegato dagli altri: «Nessuno sa che faccio teatro. Solo le nuvole sanno che metto in scena».
A un certo punto, inaspettatamente, appare a fianco alla scena, una donnina\marionetta che fuma come lui e che lo osserva quasi fosse un suo alter ego. E intanto il calibratissimo Lino Musella si modella i capelli con degli unguenti e si crea due cornine fino ad apparire simile ad un inaspettato Mosè biblico: «Io ardo come sempre per concentrazione, per eliminazione, si, e anche per rifiuto». Il tema dell’essere scollegato dal flusso di vita degli altri, e comunque la sua volontà di essere una miccia accesa di cambiamenti, in questo artista sempre fuori dalle righe, è sempre ostinatamente presente: «Quando ero più giovane me lo dicevano tutti i giorni con un dito ammonitore: tu vivi sul filo del rasoio. Sei una candela che brucia da sotto e da sopra (…) Io brucio sempre. Persino quando voi pensate che io non faccio niente». E comincia a raccontarci la sua permanenza giovanile, 1980, a New York. «Ho visitato tutte le gallerie d’arte e quella di Leo Castelli è sicuramente la migliore. Ho l’ambizione di un giovane artista divorato dai muri bianchi delle gallerie. A tutti i galleristi, per fare colpo, per agganciarli meglio, e introdurre la mia persona con più fascino, mostro il mio pacchetto di sigarette belga disegnate da Magritte. Vivo in un cliché: giovane artista squattrinato mantenuto da una donna ricca che tra un Calder e un Twombly alla fine acquista anche una mia opera. Contento perché ero completamente al verde».
Il teatro per Jan Fabre è come una droga, fino a desiderare che il pubblico esca dai suoi spettacoli con un allucinazione e rimanga “fatto” per settimane. E a questo punto urla fortissimo a noi in sala: «L’anarchia dell’amore, dell’immaginazione, dell’arte». Poi, alzandosi in piedi e guardandoci ci racconta: «Voglio essere come voi, con le vostre mancanze, con i vostri piccoli pensieri quotidiani, perché gli uomini sono migliori degli angeli! Perché voi siete imprevedibili». E raccoglie quattro piccolo pietre e le posa sullo scrittoio: sono oggetti che in fondo raccontano il nostro mondo. Ci spiega che sono la coscienza dell’uomo moderno: Einstein, Gertrude Stein, Wittgenstein, Frankenstein. Per ultimo, riflette sul linguaggio: «Pensare è un eredità dell’anima». E ci parla del suo rapporto con la droga: «Le droghe mi hanno tenuto in vita. Il declinamento del mio corpo è vitale per il mio teatro».
La magica performance si conclude con un video in bianco e nero con Jean Fabre giovanissimo, negli anni ‘70, su una piccola barca che lascia cadere in acqua una serie di parole blu che raccontano lo scorrere del linguaggio con una magnifica musica di sottofondo di Stef Kamil Carlens. Per poi infine lasciar scorrere sull’acqua un gufo, sempre blu, che, galleggiando in piedi, con il suo sguardo immobile, domina il rito appena celebrato dall’artista.
Il monologo di Fabre, curato e tradotto da Franco Paris, termina con queste poetiche scene, che fanno scattare gli applausi, impregnati oltre che dalle sue intime, pungenti, irriverenti riflessioni, anche dal fumo delle sigarette che il protagonista ha continuato a fumare tutto il tempo, quasi a lasciarci il segno anche sensoriale del suo flusso di coscienza con retrogusti a tratti ironici alla Flaiano, miscelati senza soluzione di continuità, a quelli devastanti che in qualche modo misteriosamente si ricollegano ai testi di Antonin Artaud.
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La foto accanto al titolo è di Stephan Vanfleteren.