Visto al Teatro Cestello di Firenze
Immortale Ubu
Testo teatrale più noto nelle cronache delle avanguardie storiche che effettivamente rappresentato, la saga di Ubu Re di Alfred Jarry è senza dubbio la pietra di fondazione del teatro novecentesco. I quattro episodi che la compongono vengono ora riproposti dalla compagnia “Strabiliarte. Laboratorio Permanente Ex-Tra” con la guida del regista Rosario Campisi
Pingue e animalesco, perennemente affamato e patologicamente bramoso di potere, immorale ed eversore di ogni convenzione sociale. È Ubu Re, invenzione visionaria della penna di Alfred Jarry, grande mito della contemporaneità, e dai più considerato il padre putativo di tutto il teatro del Novecento. La prima volta che apparve al grande pubblico era il 10 dicembre 1896, a Parigi, e la sala gridò allo scandalo già a pochi istanti dall’inizio della rappresentazione, a causa di quell’esclamazione di turpiloquio “Merdre!” messa provocatoriamente come incipit del testo. Il fiasco di quella serata fu clamoroso, le recite successive vennero cancellate, e il pubblico borghese condannò senza appello quel susseguirsi di frasi oscene, vicende turpi ed episodi grotteschi. Pur se nella disapprovazione generale, il dado era tratto. Con l’entrata in scena di Ubu, convenzioni secolari di buon gusto e decoro vennero infrante, e il teatro naturalista borghese venne spazzato via da un teatro onirico e spregiudicato, a cui avrebbero guardato di lì a poco le avanguardie, il dada, e i capolavori dell’assurdo. Al personaggio inventato da Jarry volle non a caso dedicare il suo omaggio Max Ernst, uno dei pittori più rappresentativi del surrealismo [vedi foto in basso a destra]. La trama dell’Ubu Re ricalca a grandi linee quella del Macbeth: un suddito ambizioso, sobillato dalla moglie, stermina il proprio re e la sua famiglia durante un banchetto e, una volta salito al trono, si trasforma in un tiranno sanguinario che uccide senza scrupoli per consolidare il suo potere. Il grande dramma shakespeariano viene però declinato in chiave farsesca, le nefandezze del protagonista avvengono in un clima di divertito compiacimento piuttosto che di metafisica predeterminazione, e la brama di potere, più che colpa intellettuale e spirituale, appare la manifestazione di ben più bassi istinti corporei fino ad allora non mai rappresentati sulla scena.
A qualche settimana dal clamoroso fiasco della prima, così ebbe a esprimersi Alfred Jarry: «Io ho voluto che, alzato il sipario, la scena davanti al pubblico fosse come quello specchio delle fiabe della signora Leprince de Beaumont, in cui il vizioso si vede con corna di toro e corpo di drago, secondo l’esagerazione dei suoi vizi; e non c’è da meravigliarsi che il pubblico sia rimasto stupefatto alla vista del suo doppio ignobile, che non gli era stato ancora presentato interamente». Ubu, dunque, come specchio, come l’immagine riflessa dell’essere umano, come lo strumento per rappresentare le pulsioni più turpi e viscerali dell’umanità – lo stesso motivo per cui i borghesi di allora furono tanto infastiditi. Questa è la stessa interpretazione che ha guidato la regia di Rosario Campisi, nel suo lavoro con la compagnia “Strabiliarte. Laboratorio Permanente Ex-Tra”. Secondo l’artista, infatti, nel testo «le azioni teatrali fanno capo agli archetipi, non esplicitati ma ben presenti» e tutta l’opera appare la personificazione dei vizi più potenti dell’uomo. Che nelle sue intenzioni lo spettacolo abbia soprattutto un intento conoscitivo lo annuncia – sorniona – la stessa locandina distribuita all’ingresso in sala. Solo apparentemente estranea al contesto dell’Ubu di Jarry, l’immagine è una riproduzione della stampa Les Habits Neufs du Grand Duc dell’incisore ottocentesco Charles Albert d’Arnoux, detto Bertall [vedi incisione ottocentesca in basso a sinistra], e raffigura la nota favola di Hans Christian Andersen Gli abiti nuovi dell’imperatore. Il senso del noto apologo è quello di una verità imbarazzante e problematica, che è evidente a tutti ma che nessuno ha il coraggio di pronunciare, ed è esattamente questo che il regista vuole fare attraverso la storia di Ubu: comunicare senza pudori agli uomini il lato condiviso da tutti ma nascosto.
Le scelte registiche di Rosario Campisi, di conseguenza, tentano di enfatizzare la valenza proto-tipica delle vicende rappresentate. Ad esempio, Madre e Padre Ubu sono impersonati nella serata da quattro attori diversi, proprio per non associarli a delle fattezze precise ma fargli assumere tante fisionomie diverse quanto lo sono i tipi umani che incarnano. Il passaggio da un episodio all’altro è marcato dal passaggio in scena di cartelli che enunciano a chiare lettere il vizio che il personaggio personificherà nelle scene seguenti (ambizione, prepotenza…) e che sottolineano la natura allegorica del dramma. Il regno di Polonia, di cui parla Jarry, viene sostituito da un immaginario “regno di Padullania” proprio per dare un respiro universale alle vicende ed eliminare ogni referente storico preciso. Anche le scene e i costumi, curati da Marcello Ancillotti, mirano ad esaltare l’aspetto emblematico della storia di Ubu. I costumi dei personaggi, ad esempio, sono un mixage dei simboli più riconoscibili delle dittature novecentesche (i pantaloni alla zuava nazi-fascisti, la stella rossa sovietica), e il palco è contornato da immagini dei più sanguinari dittatori del secolo scorso, proprio per presentare le atrocità di Ubu come quella malvagità umana che è alla base delle più tragiche vicende storiche. Infine, le luci di Alfredo Piras, fredde e dai colori scuri, restituiscono in maniera efficace il buio senza riscatto in cui è immersa l’immortalità di Ubu.
Il progetto di Rosario Campisi ha dunque delle buone idee di partenza ed è encomiabile per la volontà di riprodurre per intero tutta la saga dei testi di Ubu (Ubu Re, Ubu Cornuto, Ubu Incantenato, Ubu sulla collina) senza limitarsi solo al primo, che è quello più noto e caratterizzato. Tuttavia, la qualità è altalenante. In più passaggi, ad esempio, viene calcato in maniera eccessiva il pedale dell’assurdo, che è invece sempre calibrato da parte di Jarry, autore dopo tutto di fine Ottocento e distante da Beckett e Ionesco. In questo allestimento, invece, il gusto per la burla grottesca, pensata dall’autore per perturbare lo spettatore, viene il più delle volte declinato in un gioco farsesco volto piuttosto a suscitare il riso del pubblico. In questa direzione, vanno ad esempio l’insistenza su temi come la coprofagia e la defecazione che risultano inutilmente debordanti rispetto al testo originale. Altre volte, il gesto provocatorio prende campo in maniera abbastanza gratuita e senza precise finalità semantiche. Ad esempio, non si comprende bene la necessità di mischiare il monologo di Ubu incatenato con la testimonianza di Totò Riina al maxi-processo, in quanto l’associazione a un malvagio con connotati così distintivi sembra piuttosto annullare la valenza archetipica che il regista annette al mito di Ubu. Anche le scelte musicali, con celebri motivi di Mina come controcanto ironico delle scene, tradiscono un certo gusto per gli accostamenti assurdi fine a se stesso. I trapassi, bruschi, riescono tuttavia a mantenere desta l’attenzione dello spettatore: le due ore di recita trascorrono velocemente in un ritmo vorticoso e incalzante. A tenere viva l’attenzione contribuisce anche la recitazione espressionistica, con voci esasperate e pose grottesche, che caratterizza il cast.
Lo spettacolo del Cestello si muove quindi tra i due poli opposti della comprensione in tutta la sua portata della potenza del mito originario e del gusto – forse eccessivo – per la libera ricreazione farsesca. Quel che è certo, è che l’immortalità del più grande mito del teatro novecentesco ne esce pienamente confermata.