Due libri sul grande critico
Il mondo secondo Garboli
Rosetta Loy e Paolo Gervasi, sia pure in modo completamente diverso, ripercorrono la parabola di uno dei maggiori maestri del Novecento. Uno studioso dall'approccio strabico che finisce per interagire sempre con il fenomeno osservato
Scrivere di Cesare Garboli non è mai semplice, perché si finisce per essere risucchiati dai magnetici buchi neri che sono le sue puntuali autodescrizioni, vergate con l’intento di chiarire il suo modo di vivere e intendere il lavoro critico. Ed è pur vero che Garboli è stato, per più di una generazione, il critico-lettore che meglio di altri ha saputo esprimere, con le sue metafore, l’essenza dell’attività critica. In una pagina di diario del 1976 Sandro Penna così, con fulmineo piglio, scriveva: «E che farà Garboli col tempo? Sempre così brillante ma incapace di comprendere quello di cui non “ha la chiave”»… Quel Penna la cui singolarità Garboli cercò di sintetizzare nella totale mancanza di simboli, in una poesia in piena luce. Quell’antagonismo che raccolse nei saggi di Penna papers (1984) e che gli fu rimproverato da taluni estimatori del poeta e che tuttavia si accampa come irrinunciabile cifra del metodo garboliano, simile a uno «sfidante che si è allenato a lungo prima di salire sul ring, e adesso è pronto ad allungare il pugno decisivo».
Così almeno appare a Rosetta Loy, che decide di far parlare Garboli ancora una volta attraverso i suoi scritti in Cesare (Einaudi, 2018), al punto che le memorie personali sono davvero centellinate dalla scrittrice, per esempio laddove rievoca la loro vita insieme nel «mondo segreto di Vado», o dove dice della sua passione per gli oroscopi o nelle pagine in cui racconta come proprio a Vado di Camaiore sia nato Le strade di polvere, il libro suo più fortunato, quello che le cambierà, da scrittrice, la vita. O ancora dove, chiamando in causa i suoi scritti, ricorda l’incontro decisivo con Molière («Il “vizio” di Garboli è Molière, quello di Molière fu il teatro») e di come abbia riconosciuto in Tartuffe, il suo personaggio più archetipico – «politico del profondo» –, «il modello dei metodi di comportamento del potere». In verità, la scrittrice mostra un certo pudore a dire più del dovuto sul Cesare uomo e compagno, che nel privato contraddiceva la sua indole improntata all’estremo raziocinio, riservando, per esempio, maniacale attenzione al corso degli astri e alla jella (si pensi al fatto che credesse alla comune diceria che i gatti neri siano forieri di sventura). Ritrosia bypassata con la cucitura (rigorosamente cronologica) dei suoi testi e paratesti d’accompagnamento ai suoi libri: avvertenze, prefazioni, introduzioni che premetteva come viatico, sempre pronto a esternare e chiarire le singolari ragioni dei suoi progetti, di ogni suo partito preso. Al punto che talvolta si ha l’impressione di leggere Cesare come una vera e propria antologia, per le ampie citazioni che figurano nel libro, a ripercorrere le coordinate intellettuali che hanno fomentato la mente del critico. Tuttavia, il libro può leggersi anche come un continuo riandare, da parte della scrittrice (palombara dell’esistenza), alla ricerca di ciò che, insospettatamente, nella loro vita insieme, fu “bellezza” e “felicità”.
Orientato a scandagliare la più ovvia verità intorno all’esercizio critico è invece l’ampio e ben argomentato studio che al viareggino dedica Paolo Gervasi, Vita contro letteratura. Cesare Garboli un’idea della critica (Sossella, 2018), titolo spiazzante che si giustifica e si comprende solo se si tiene presente come Gervasi abbia voluto applicare all’opera critica di Garboli la stessa «inclinazione conoscitiva» che egli applicava alle opere degli scrittori amati, a significare la radicalità entro cui ha saputo tenere insieme vita e letteratura, la loro irrisolvibile giustapposizione. Se il «punto di vista» – come scriveva lo stesso Garboli nella prefazione al carteggio Berenson-Longhi –, «è il solo modo di comprendere una totalità nei più piccoli particolari», la forma del saggio è (tenta di spiegare Gervasi) il genere naturale attraverso il quale esprimere, con la sola forza d’argomentazione, questo sguardo obliquo che di proposito elide la visione prospettica centrale; e la scrittura saggistica diventa pertanto il luogo d’una speciale tridimensionalità, spazio terzo che «coinvolge la vita, la concretezza dell’esperienza di chi scrive e di chi legge». Nella sua duplice veste di spettatore e attore, il critico «interpreta il testo eseguendolo e ricreandolo». Per cui il suo discorso si configura come «ricerca continua delle forme di “intertestualità tra vita e letteratura”». Il solo metodo, proprio di Garboli, fu pertanto quell’approccio strabico, cosicché il punto di contatto con il testo, l’atto dell’osservazione, induce il critico, come accade per il noto principio di indeterminatezza di Heisenberg, a interagire per forza di cose con il fenomeno osservato, nel contempo determinando e subendo, egli stesso, il sistema di riferimento (che sarebbe l’opera). Nell’anamorfosi conoscitiva, nell’atto di scrittura sta la contiguità esibita tra arte e vita, l’approccio critico garboliano ha di fatto messo in crisi la «doppia rimozione» operata dagli scienziati della letteratura del Novecento in nome di una impossibile oggettività: da un lato il dato esistenziale della scrittura; dall’altro l’ineludibile «sostanza letteraria» della critica stessa (Gervasi definisce, a ragione, le incursioni del critico viareggino, come «romanzi critici», di cui il critico, per il fatto di dire io, è a tutti gli effetti uno dei protagonisti). I romanzi garboliani originano entro un particolare e inventivo «spazio di prossimità», una dimensione semitestuale e aperta, in cui, come faceva l’amato Delfini, riscrive e traduce, incarnando una secondarietà «figura del rapporto tra l’interprete e lo scrittore». In Garboli la procedura del saggio si attiva, per usare un’immagine si spera eloquente, in modo complementare rispetto a come accadrebbe all’interno di un racconto deduttivo di Italo Calvino: è come se, per dire, il cacciatore protagonista di Ti con zero, anziché interrogarsi sul problema di come evitare la morte e se riuscirà a scampare al leone una volta scoccata la freccia, a un certo punto finisse per concentrarsi solo sulla freccia in quanto oggetto balistico in sé, come cosa concreta (e non più variabile di un sistema), nella sua finitura e provenienza. Indizio marginale, ma che gli consentirebbe di svicolare, narrare un’altra storia, nella convinzione che il solo modo per diventare oggettivi è mantenersi soggettivi. È il punto di vista a rimanere perennemente “compromesso”, volutamente interno; giacché il baricentro da cui prende avvio la curiosità del critico muove sempre da un terreno extraletterario.
Suggestivo poi, anche se un po’ forzato, il tentativo di leggere i procedimenti garboliani, come una sorta di anticipazione di certe interpretazioni neurocognitive dell’arte e della letteratura, riferendosi al recentissimo lavoro di Alberto Casadei (per cui lo stile diventa il sismografo dell’interazione tra mente-corpo e ambiente) o alle ricerche di Gabriele Frasca: orientamenti che, seppur in maniera differente, sembrano convergere verso la diffusa necessità di «assottigliare la distanza tra l’arte e la vita umana». Forse, per rintracciare i prosecutori di quello strabico approccio, nonostante la ricca, documentata e appassionata disamina, Paolo Gervasi avrebbe dovuto volgere lo sguardo anche altrove (penso a critici come Massimo Onofri e Raffaele Manica che mi sembrano interpretare, peraltro in maniera più autentica e duratura, nei loro scritti, quel metodo di “prossimità” alla vita).
Non so perché, per spiegarmi Garboli, mi è giovata la paradossale interferenza della lezione di Calvino, lo scrittore forse più distante dal Nostro e di cui il critico stigmatizzava l’insopportabile falsetto letterario. Nell’attenzione alla “potenzialità” dell’opera letteraria, Cesare Garboli somiglia a un signor Palomar che ha rinunciato ai suoi dilemmi e, diventato adulto, accetta ormai di muoversi in quella «fluidità», per sempre guarito – almeno nei suoi «attraversamenti» – dalla nevrosi di un’inseguita conoscenza obiettiva e rigorosa della vita. È la vittoria del punto di vista, dello sguardo ibrido – strabico, appunto –, di per sé foriero d’una conoscenza sì particolare, ma che si auspica condivisa dal lettore.