Lidia Lombardi
Il libro di Nicola Fano

Etica del Teatro

Una storia della letteratura teatrale e dello spazio scenico in 187 pagine di introspezione, informazione, formazione e insegnamento morale nel nuovo libro di un autore vero esperto della materia. Una lettura che appassiona, che accende curiosità e che dimostra come davvero il teatro possa porre «in evidenza il meglio di noi stessi»…

Non è una storia della letteratura teatrale, né dello spazio scenico. Non è “album” che assembla le fisionomie dei maggiori interpreti, né uno studio sui registi più osannati. Non è neanche solo analisi sociologica o economica. È invece tutto questo il libro snello e denso di Nicola Fano – scrittore, critico e docente all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino – che si intitola, senza fronzoli, Che cosa è il teatro (Succedeoggi Edizioni, 12 euro). Senza fronzoli perché Fano, in 187 pagine, esamina lo spettacolo più antico, nato in Grecia duemilacinquecento anni fa, ne svela i meccanismi, le regole, i protagonisti, l’interazione con la società per chiedersi infine a che cosa serve il teatro e, soprattutto, se serve ancora. Nell’interrogativo si avverte una vena di pessimismo. Il teatro, che è svago «utile, vivido, emozionante» ha ancora senso «oggi, all’Occidente in crisi profonda del 2018?». Fano lascia la risposta a ciascuno. La sua, di individuo prima che di studioso, è certamente sì. Perché il teatro è la più alta forma di connessione tra cittadini, la più civilizzante: e non è poco nel mondo becero, aggressivo della piazza virtuale che schiaffa nel tritacarne la riflessione.

Accidenti, può un libro tanto piccolo da infilarsi quasi in tasca contenere questo nientepopodimeno di introspezione, informazione, formazione e insegnamento morale? Beh, ci riesce Fano, prendendo il lettore per mano e facendogli fare un passo alla volta nei meccanismi di quello “svago” nato peraltro nella culla della democrazia, la Atene del sesto secolo avanti Cristo. L’essenza del passatempo è infatti una convenzione ammirevole: si ha teatro solo se ci sono almeno un attore e uno spettatore. I due interagiscono, diventano complici, meglio, sodali: il primo finge di essere qualcun altro, il secondo finge di crederci. Può succedere solo grazie a una reciproca fiducia. Un patto di fedeltà, un impegno a non tradire. Ecco allora dipanarsi la cavalcata attraverso i secoli. La scena greca, nella quale i maggiorenti finanziavano gli spettacoli durante le feste in onore di Dioniso, e dunque in un quadro religioso; quella medievale delle Sacre Rappresentazioni dove il committente era la Chiesa; quella del Rinascimento, sovvenzionata dalle corti; l’esplosione del teatro senza padroni, che fissa un rapporto di mercato tra attori e spettatori portando i primi a rispondere soltanto al pubblico che compra il biglietto. Perché è poi il fattore economico quello che fa da lievito al teatro: attori, capocomici, registi, tecnici alla fin fine devono «mettere insieme il pranzo con la cena». E non è urgenza che limiti la qualità: la Commedia dell’Arte e il teatro elisabettiano di Shakespeare, esempi di spettacolo a pagamento, hanno prodotto capolavori e segnato snodi fondamentali.

Già, Shakespeare. Compare in filigrana in tutto il volume. Una sottotraccia del modo ordinato e insieme appassionato con il quale Nicola Fano organizza il suo lavoro. Perché se teatro è cocktail unico di parola, spazio, musica e corpo dell’attore, il Bardo compare a ragione in ciascun capitolo. Eccolo autore di testi che il mondo sa a memoria; eccolo evocare nei versi dell’Enrico V quella “O di legno” che è lo spazio del Globe Theatre, forma funzionale al tipo di spettacoli proposti dalla sua compagnia; eccolo “regista” ante litteram nell’allestimento di Sogno di una notte di mezza estate; eccolo stimolare l’immaginazione dello spettatore – altro specifico del teatro – creando con due teli le vele delle navi in Antonio e Cleopatra; eccolo, appunto, capocomico di quel consesso cooperativo che dava buoni guadagni a tutta la compagnia perché, sospira Fano, «arte e cultura erano un valore, allora».

Ma quanti altri volti vengono sulla scena di Che cosa è il teatro. Goldoni, con una rivoluzione che supera lo schematismo della Commedia dell’Arte, crea titoli capaci di parlare all’emergente borghesia veneziana, presto però ripiegatasi su un binario politico autoreferenziale. Ibsen altrettanto dirompente in Casa di bambola, un capolavoro che non esita a rinnegare nel finale per cedere alle pressioni conformiste del pubblico tedesco in balia della diva del momento. Già, entra nella narrazione anche il divismo, il teatro come moda sociale, plasmato dagli impresari, dediti al profitto epperò anche geniali, per esempio Barbaja, che offriva agli spettatori il suo “cappuccino” ma sapeva fiutare i grandi del melodramma, Donizetti, Rossini, Bellini. E il “teatro totale” di Gropius contrapposto al “golfo mistico” di Wagner, e le invenzioni di Strehler e di Ronconi. Fano spiega, racconta, insegna. Il teatro, sottolinea, è poi speciale nel veicolare civiltà. Spettatori in platea, ci identifichiamo con i personaggi sul palcoscenico, diventiamo con loro quello che desideriamo essere, conosciamo a fondo noi stessi. Non avatar dei social network, tracotanti perché anonimi. Ma parte di un collettivo dall’identità condivisa. Anzi, il teatro «pone in evidenza il meglio di noi stessi, poiché siamo lì in carne e ossa a firmare le nostre emozioni, prendendocene la responsabilità». Una lezione etica da portare subito in scena.

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