A proposito di “Novilunio”
La poesia di luce
La nuova raccolta poetica di Tiziano Broggiato gioca sul rapporto tra parola e luce: una luce non derivata ma interpersonale, non rifratta ma signora delle cose, non caleidoscopica ma integra
Durante il novilunio, come si sa, l’emisfero visibile della luna è adombrato. Ciò significa, tecnicamente, che il satellite naturale è in un nodo d’orbita tale da varcare il piano eclittico in perfetto allineamento con il nostro pianeta e il sole. Ma anche, metaforicamente, che questa situazione astrale prelude a un inizio, identico e differente: l’ombra tornerà presto luce in ascesa, fino alla pienezza. Lo stato di “luna nuova” coincide, dunque, con la condizione di chi attende la vertiginosa climax della propria ispirazione poetica. Questo è il possibile senso che Tiziano Broggiato dà alla sua più recente silloge, appunto Novilunio (con un commento di Franco Cordelli, LietoColle, pagine 91, euro 13), aggrovigliata tra le screziate suggestioni di luoghi diversi e il silenzio della parola mancante, la «sala d’aspetto periferica» di «una stagione» «vicina allo zero». Il lavoro del poeta risiede nei «legittimi sconfinamenti», nelle asperità di «prolungate assenze» che si presentano, per dirla con Magrelli, come una schiarita sulla pagina. L’agguato e la parusia della scrittura, «un’altra specie di tempo» – tempo weiliano d’indugio e permanenza del trascendente –, lo «zero» di Kierkegaard sono simboli di uno stallo esistenziale che si protende verso un più energico abbrivio («Si affacciano su entrambi i ponti/ curvi volti stupefatti: sottinteso/ ora è il rischio di apparire/ pavidamente appagati»), anzi lo esige con certezza. Davide Rondoni, in riferimento al libro di Broggiato, ha osservato «l’opaco, compatto scetticismo nei confronti di ogni possibile vena di gioia» che contraddistingue l’agone di molta poesia odierna.
Ed è qui che si mostra la chiave di volta, la cifra ermeneutica: la luce non derivata ma interpersonale, non rifratta ma signora delle cose, non caleidoscopica ma integra, affronta vis-à-vis l’io lirico («La luce sostò a lungo/ davanti alla mia porta./ Io, all’interno, le davo le spalle/ ma ne avvertivo distintamente/ la presenza»). Come nella lotta tra Giacobbe e l’angelo di Dio sul ciglio del fiume, il poeta si ritrova la luce «così di fronte: alta,/ lattiginosa. Irridente». Segnala Cordelli nella nota di commento ai versi: «Ed ecco quasi esplodere, farsi spazio, prendere piede, tenere avvinto, a sé legato, tutto ciò che segue: la luce. Di cosa ci sta parlando questo poeta, Tiziano Broggiato? Di una condizione umana con la schiena al muro (ma tra le righe, ovvero tra i versi, negli stessi versi, anche storica), una “umanità” ansiosa, anzi bramosa, di resurrezione: in essa egli crede. Si affida alla luce, ai suoi segnali».
Altra fondamentale tematica che chiude la polarità della silloge, è la notevole presenza dei luoghi (da Venceslao namesti di Praga a Le Havre, dal quartiere Belgravia di Londra alla Patagonia, da La Cropte a una California immaginata). Più della loro concreta evenienza, risuona la fortezza estatica del nome, «nella città che si muove prona/ sotto la corona scura di Hradcany». La morfologia straniera e inusitata del toponimo sembra liberare, in un’ossessione zanzottiana, lo slancio lirico dalla maglia di ferro, dalla gabbia del verso che Broggiato impone. Ne risente (positivamente) l’andamento tonale delle poesie, come sbalzate dalla loro posizione ontica ogniqualvolta il linguaggio – discreto e calcolato – si scontri con una trazione fonematica ribelle. Alcune cadenze potrebbero assomigliare stranamente alle accentuazioni ripelliniane (e ripelliniano era lo sfondo praghese), nondimeno così misurate, quasi vereconde nel mostrarsi allo stesso autore vicentino.
È chiaro, a questo punto, che la luce e la potenza del nome non riescono più a nascondere il tema carsico del viaggio come ritorno all’origine: stazioni, ripartenze, curve, ferrovie, ascensori di «remote beatitudini». La salita e l’avvicinamento, credendo o dubitando, è un fermarsi «sospeso» simile «a un pulviscolo», una Waterloo che chiede ancora battaglia «anche dopo il fatale drenaggio». Riaffiorano allora i poeti cari nell’«esercizio di versi a memoria»: Sereni, Larkin, Lipska come magnolie nel giardino che allungano il collo alla finestra aperta, fiori freschi di un ripensamento e parole d’incursione negli spazi, rianimano l’ingegno splendidamente nativo del poeta, segno tangibile del nuovo corso lunare.
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Accanto al titolo: “Le forze di una strada” di Umberto Boccioni