Danilo Maestosi
Al museo di Palazzo Corsini a Roma

Barocco Mapplethorpe

Le immagini provocatorie - anche se un po' lontane, ormai, nel tempo - di Robert Mapplethorpe si confrontano con l'arte classica. Il risultato è ingeneroso: meglio l'originale delle copie inconsapevoli

Un museo, palazzo Corsini alla Lungara, a Roma, congelato in un immagine-scrigno di quadreria settecentesca rimasta per quasi tre secoli immutata: quadri appesi senza gerarchia d’autore e di cronologia, ma accostati per temi. E un maestro della fotografia, Robert Mapplethorpe, morto di Aids nel 1989 a soli quarantatré anni, cristallizzato in un’aura a senso unico di scandalo e di trasgressione. Bella l’idea della nuova direttrice di Palazzo Corsini, Flaminia Gennari Santori, di provare ad avvicinare due mondi e due esperienze così lontane nel tempo, apparentemente inaccessibili, aprendo le sale della Galleria a una mostra che rende omaggio, a trent’anni dalla morte, al talento visionario precocemente bruciato di Robert Mapplethorpe. Una messinscena, in cartellone fino al 30 giugno, affidata a quarantanove immagini in bianco e nero sgranate lungo il percorso e incastonate tra le centinaia di tele raccolte in quelle sale del piano nobile impreziosite da soffitti affrescati, cimeli, mobili e soprammobili d’epoca.

Antico e moderno a confronto. Non è una novità, neppure per Mapplethorpe: dieci anni fa a Firenze le sue foto di nudi furono esposte a specchiarsi con i marmi di Michelangelo. Ma stavolta l’accostamento è innervato da un copione più ricco di intenzioni e di spunti. C’è il gusto del cardinal Neri (1685-1770), creatore e ordinatore della raccolta di palazzo Corsini, che si misura con quello con cui, con i lucrosi guadagni di una sfolgorante impennata di carriera, il fotografo newyorchese arredò e imbottì di cimeli di ogni tipo, quadri, stampe, sculture tra il sacro e il profano, mobili, oggetti, l’appartamento di Manhattan: un’ossessione da collezionista consegnata ai posteri come un testamento, una confessione, un diario di vocazioni e ispirazioni, dall’ultimo reportage poco prima della morte dedicato agli affollatissimi interni della sua abitazione.

C’è , documentato in mostra, più o meno l’intero repertorio di filoni sui quali si indirizza l’estro creativo di Mapplethorpe, l’occhio docile e selettivo della sua macchina fotografica, «l’obiettivo sensibile» richiamato dal titolo di questa rivisitazione. Al consueto e fin troppo sfruttato campionario di pose sadomaso, nudi da scandalo, transiti e personaggi di ambigua sessualità, si affianca una dosata scelta di ritratti di vip della Manhattan bene e anticonformista, di paesaggi, dettagli di architetture, di fiori e piante inquadrati con spudorati antropomorfismi, corpi modellati con scalpelli di luce come teorizzava il suo compagno, lo storico e curatore d’arte Sam Flagstaff e grande collezionista di fotografia. Fu lui a metterlo in contatto con i primi grandi pionieri della fotografia, lui a spingerlo a rubarne i segreti. Lui a regalargli la prima vera macchina da professionista, una Hasselblad, un salto di qualità e possibilità enorme per uno come Robert che all’inizio si affidava solo alle istantanee usa e getta di una Polaroid. Era il 1975. Una data che segna una svolta radicale nel suo stile e nel suo approccio alla realtà come una laurea d’artista. Da allora, tutte o quasi le sue immagini sono costruite in studio, le inquadrature diventano più nette e ricercate, gli orizzonti espressivi si ampliano. Tutte le foto in mostra sono state scattate dopo questa data. Il suo immaginario si arricchisce di una complessità di motivi e angolazioni che trova sponde e controcanto nell’articolazione tematica di questa quadreria romana, che Robert Mapplethope non ha mai visitato, ma avrebbe sicuramente amato. Con la straordinaria raccolta di icone classiche, manieriste e barocche, che affollano il piano nobile di palazzo Corsini, Mapplethorpe condivide il fascino per l’armonia, l’equilibrio, il dosaggio dei giochi di luce, la forza ideale che sprigiona dai corpi. Davvero straordinario il confronto tra quattro fotografie di un modello nero, il corpo raggomitolato, le braccia che circondano le ginocchia, uno stupore cromatico di rifrazioni di effetti luminosi e le masse di corpi e i riflessi di due bronzetti di scene mitologiche posate sul tavolo più sotto. E cos’altro sono, se non un inno alle regole patinate del neoclassicismo, quei due primi piani affiancati: il profilo di una statua greco-romana che guarda i tratti più imperfetti ma altrettanto luminosamente levigati di un nero newyorchese? Con quel tocco di graffiante ironia in più – bianco e nero, due pedine di una partita a scacchi razziale – che è la cifra caratteristica di Mapplethorpe. Lo stesso sberleffo da funambolo che ritrovi un paio di sale più in là nella trasmutazione delle Tre Grazie, capolavoro canoviano, in un più ambiguo capriccio di ambiguità e transiti sessuali. Oppure nel ritratto in piedi, pantaloni borchiati, corpetto fetish, seni scoperti, spalle muscolose, di Lisa Lyon, l’amica culturista che Robert immortalò spesso in una nudità ostentata da erotica mutante che oscilla tra maschile e femminile.

La malizia del desiderio, gli spericolati girotondi attorno al peccato: due modi analoghi, ma profondamente diversi di avvinarsi e distaccarsi dalla teatralità delle vita e delle pulsioni, che scandiscono l’intero tragitto di echi e rimandi reciproci di questa mostra. Guardi le foto e poi ti guardi attorno, interrogando come forse non hai mai fatto le opere di questo scrigno settecentesco, lasciate senza titolo e autore come ha imposto il cardinale che le ha selezionate e raccolte. Cercando i dettagli che hanno generato quel rimbalzo emotivo che ti ha colpito. Ed è un confronto che alla resa dei conti giova più al museo che al suo ospite, perché anche nei cimeli meno prestigiosi di queste sale scopri una teatralità che per ricchezza di sfumature, modulazioni d’impianto, motivazioni camuffate, genialità di soluzioni visive sovrasta le messinscena fino troppo meccaniche e costruite dell’artista e portabandiera gay fine Novecento, ancora figlio del suo tempo tra opere che hanno scavalcato le barriere della Storia.

Un esempio tra tanti, nel registro della crudeltà che tanto solletica la fantasia di Mapplethorpe. Ecco uno dei siparietti sadomaso che costellano la produzione del fotografo americano: Dominick ed Eliot, un bianco e nero del 1979. Il primo è in piedi a torso nudo e copre con una mano il sesso del secondo appeso a testa in giù, come un martire al supplizio, la mani divaricate, la gambe incatenate, una frusta nodosa che gli pende come una ferita dal costato. Li guardi e ti torna in mente una cupa tela barocca che hai visto nella sala prima. Ritrae la condanna con cui gli dei dell’Olimpo punirono Prometeo per il furto che sigilla la rivelazione del fuoco all’umanità: appeso ad un masso con un’aquila che torna ogni giorno a artigliargli il ventre senza ucciderlo. Che orrore e quanta paura gronda da quello squarcio da cui sgorgano viscere e sangue, da quelle membra torturate che si contorcono. Qui sei costretto a misurarti con l’Inferno e non con lo spettacolino da locale gay allestito per uno scatto da scandalo.

Figlio del relativismo postmoderno di quell’ultimo scorcio di Novecento che lo ha consacrato, Mapplethorpe resta, aldilà delle sue intenzioni e del valore liberatorio dei suoi messaggi, un artista di superficie, un acrobata di simulazioni. Anche quando si aggira nel labirinto di ipocrisie e rimozioni del peccato. Non c’è un suo nudo che possa reggere l’intensità di slittamenti di percezione, conflitti, sensi di colpa che trasuda dal quadro di Lanfranco, uno dei pionieri del barocco, che incroci nella sala accanto, un San Pietro che in carcere visita e guarisce Sant’Agata. Quel cerchio di sangue che Pietro traccia come un esorcismo sul seno pallido e nudo della santa ti si imprime nella retina con indelebile sottigliezza, ti restituisce per un istante ad una condizione d’adolescente smarrito in bilico tra tentazione e innocenza.

Anche l’eleganza dei ritratti di Mapplethorpe, altro punto d’eccellenza del suo repertorio, ci appare come un effetto di superficie, un incastro ben fatto di citazioni senza profondità. Nello sbuffo di tulle di Bernina puoi riconoscere il dettaglio del copricapo arricciato del celebre busto di Alessandro VI modellato dal Bernini, esposto lì accanto. Nei gesti stereotipati da Vergine in posa di Caterina Olim puoi ritrovare la compostezza di tante Madonne e dame di corte che ti appaiono lungo il percorso. Nelle labbra arricciate sotto un cappello a cilindro di Guy Neville puoi notare lo stesso taglio di espressione di un busto di bronzo di un nobile settecentesco posato sul tavolino più in basso. Copie e rimandi, a volte anche inconsapevoli. Inevitabile preferire gli originali.

Un po’ per evitare imbarazzo ai genitori con i figli al seguito, ma forse anche per scongiurare questi paragoni alla lunga devianti, gli allestitori hanno deciso di chiudere la mostra, isolando una ventina di foto di Mapplethorpe nelle ultime due sale. Un vuoto che sicuramente restituisce loro attenzione e valore. Corolle di fiori scolpite dallo zoom nella sensualità dei loro dettagli antropomorfi. Splendide inquadrature di interni di rarefatta astrazione. E un campionario di falli ritratti in piena erezione e modulati come attori che recitano a soggetto. Uno è adagiato su una coscia come il residuo d’un sogno al risveglio. Un altro infilato in un calice a svotare l’urina. Un altro ancora avvolto come una salsiccia dai legacci, il tridente di un satiro che sembra controllarne la cottura. Una sfida al perbenismo e all’ipocrisia sessista che col tempo ha un po’ perso mordente dissacratorio. Ma lascia intatto il sapore raffinato del gioco da dandy che l’ha partorita. E ci si è bruciata su anche la propria vita.

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