Francesco Improta
A proposito di "Non ero preparata"

Mute parole

Quella di Melania Panico è una poesia di legami e di perdite, di fughe e di ritorni, di rotture e di conciliazioni in cerca di qualche forma di asso­luzione

Melania Panico, autrice di Non ero preparata (editore La vita felice, euro 10), in sintonia con illustri predecessori quali Baudelaire, Proust, Barthes e Biamonti, è convinta che un’opera – poco importa che sia in versi o in prosa – non debba rimandare ad altro da sé, che la componente autobiografica, cioè, abbia una rilevanza marginale nella composizione di un testo e che la cosa che realmente interessi all’autore, agli addetti ai lavori e ai lettori meno sprovveduti e superficiali sia la resa, l’esito finale, che a sua volta diventa piacere e occasione di riflessione e arricchimento per i lettori. Non è un caso che manchino le coordinate spazio-temporali, che non ci siano, cioè, riferimenti precisi a luoghi, date o persone con la sola eccezione di una figura femminile Maria posta all’inizio del settimo componimento della I sezione: «Maria cammina scalza sul parquet // dal fondo delle sue note // mi parla». Prima, però, d’inoltrarci nella disamina dei suoi componimenti mi sembra doveroso sof­fermarsi sul titolo, la dedica e l’esergo di questa raccolta.

Il titolo allude alla incapacità di far fronte alle sofferenze, alle delusioni, alle perdite, agli imprevisti della vita, e non solo quelli dolorosi, dinanzi ai quali non si è mai preparati a sufficienza. Ed è un modo di confessare le nostre debolezze – non ci dimentichiamo che la sua precedente raccolta di versi era Campionature di fragilità – ma anche di conseguire una nuova con­sapevolezza per cui le cose, non più sovraccariche di senso né madide di lacrime, ci appaiono in una sospensione assoluta, quasi decontestualizzate.

La dedica «A mio nonno, albero sacro» rimanda all’ambito familiare, al senso dell’appartenenza e alla forza della tradizione, ma anche all’albero che secondo la cosmologia Maya collega terra e cielo e che a Napoli, città ossimorica, di spasmi e di gaiezze, di cieli puliti e di tenebrosi sottosuoli ha un suo perfetto habitat naturale. È poesia di legami e di perdite, di fughe e di ritorni, di rotture e di conciliazioni in cerca di qualche forma di asso­luzione: «Vorrei comprimere il pensiero di me // in un barattolo // costruire un’idea debole // una forma di assoluzione».

Ancora più eloquente l’esergo tratto da Remains di Mark Strand che suona testualmente così: «I empty myself of my life // and my life remains (Mi svuoto della mia vita // e la mia vita rimane)» da cui traspare la volontà di spogliarsi, di mettersi a nudo, di affrancarsi da tutto ciò che è stato per raggiungere, in questa radicale ricerca esistenziale, una nuova coscienza. Uno sguardo sempre vigile ma distaccato sulle cose, sugli oggetti domestici («un gingillo d’oro, una rosa, il carillon della nonna, una foto ingiallita, una sigaretta tra le dita») che non sono più punti di riferimento ma semplici resti, macerie di un terremoto interiore.

Tutto questo con una poesia che non ha né può avere una funzione salvifica o catartica ma che è frutto di un lungo, tormentato sfinimento («verso esausto», pag. 13 che anticipa «era esausta anche la luce del frigo» dell’ultimo componimento). Al centro di questa incessante ricerca poetica c’è la «parola scavata come un abisso», per dirla con Ungaretti. Nella Panico la parola poetica conserva la sua abissalità, la sua ferma potenza di rivelazione, non si confonde con i vocaboli della quotidianità, le cosiddette chiacchiere (di cui parla Heidegger) a cui spesso si contrappone il silenzio. Una parola poetica che accompagnando ogni volta la scoperta di sé e del mondo diventa coscienza e costruzione non mistificata della realtà.

Spazio e tempo – lo abbiamo detto all’inizio – non sono riconoscibili: lo spazio spesso è vuoto («armadi svuotati, veranda deserta, casa disabitata, beccafichi che abbandonano il giardino») e il tempo viene scandito dal­l’alternarsi del giorno e della notte o delle stagioni, con una certa pre­dilezione per l’inverno che reca con sé freddo, pioggia e neve, una neve sulla quale vengono “ammassate le verità, una neve che “scompare ma che ritorna sotto forma di acqua, “spasimo o attesa”. Ed è sull’attesa tra ciò che è stato e ciò che ancora non si è avverato che l’autrice misura il tempo oscillando tra dentro e fuori, tra il buio e la luce ed è proprio quest’ultima ad evidenziare il vuoto e l’attesa, prima di diventare nell’ultima sezione del libro essa stessa una questione irrisolta come le altre. Domande destinate a non trovare risposte ma proprio per questo, accantoniamo i ragio­namenti e affidiamoci alle emozioni, o meglio le visioni, che sanno evocare i versi della Panico, alcuni dei quali di grande bellezza e di straordinario impatto emotivo:

«Arriva il giorno, poso // tutto il delirio sul davanzale…
Sala visitatori avverte la scritta // anch’io avrei voluto chiudermi in un angolo // oppure partire: un viaggio è quello che ci vuole. // Anch’io avrei voluto partire, prendere distanza // diventare campo di grano, ipotesi di buio. // Fuori ricordo invece che c’era molta luce».

Poi anche le partenze perdono di significato, si capisce che bisogna restare, «autenticare il vuoto» con un lavoro paziente da abile artigiano più che da raffinato orafo:

«Restare è un verbo che s’impara tardi.
E
Il restare funziona così: // è un patto // disporsi in direzione contraria all’ombra».

—–

La foto accanto al titolo è di Carlo Falanga

Facebooktwitterlinkedin