Su “Sindrome del distacco e tregua”
La Milano di Cucchi
Nella sua nuova raccolta, Maurizio Cucchi gioca con la tecnica per cercare le ragioni della contemporaneità nella storia, nei maestri e, anche, nella pieghe della sua città, terra prediletta di una «sospensione felice»
Uno degli aspetti più evidenti della poesia contemporanea è l’esigenza dell’allusivo, dell’inespresso, se non dell’implicito. Giocare di sottintesi è il lavoro tipico della lirica di ogni tempo, una “funzione poetica” a tutti gli effetti (Montale direbbe «scaltra» e «psicologica»), ma si attiva maggiormente nel momento in cui quest’arte sente di essere insidiata da forme diverse (e comunque meritorie), quando avverte cioè attraverso i suoi attori – i poeti – che la natura (lo sgusciare, l’ineffabile) si sta smarrendo o, addirittura, sta perdendo di identità e autonomia. Quella che può sembrare una recrudescenza della tecnica diviene un gesto d’indipendenza ed emancipazione.
Nel leggere Sindrome del distacco e tregua (Mondadori, «Lo Specchio», pagine 112, euro 18), ultima silloge di Maurizio Cucchi, capita proprio di comprendere come l’oggetto fisico della poesia sia un’azione del tutto contraria, una forza d’urto che Heaney, in Human Chain, ha chiamato letting go, «lasciar andare», uno «sgravio, di fatica più vera ricompensa»; per Cucchi è un attimo di assenso, di «improvvisa adesione» a seguito del movimento vorticoso di transito, oltre il quale avviene la «tregua», «non totale» «ma quasi». La «sindrome del distacco» coincide, quindi, con l’ansia della separazione che ha certamente un contenuto ontologico (Contini la scriverebbe infatti con la “s” maiuscola, Separazione), e tuttavia riguarda i più minuti stati mentali del soggetto – la «narrazione incongrua» del cervello –, il quale avverte il mondo circostante come uno «sgagnare» e «usmare», una febbrile azione di viaggio contornata di echi cognitivi (Caproni, ad esempio: «Amore mio – mi ripetevo – nei vapori/ d’un bar») e di un basso mordente da cui scollarsi, slittare «in un sorriso nel vento».
Fondamentale è, nella seconda sezione del libro Il penitente di Pryp’jat’, il paesaggio ucraino della «desolazione» (siamo nei pressi di Černobyl’) che, comunque, in una «consecutio onirica» richiama alla memoria gli inni eucaristici di Tommaso d’Aquino («Latens deitas/ quae sub his figuris, vere latitas»); anche qui un difficile assenso viene sillabato «nel grande scandalo» della «provvisorietà», nel «grattare» l’idea sbalzata delle cose sulla superficie dell’«atlante». La consapevolezza del dolore non altera, però, quello che Alfred Kolleritsch ha definito come il «primato della fioritura»: nel tono sinuoso e spigoloso, paradossalmente (e senza affanno) classicista di Cucchi rimane integro il senso di una «gioia quieta», la trasparenza di una condizione a cui l’io lirico deve immancabilmente tendere e aderire, e persino il «più luminoso sbocciare».
Subentra a questo punto la storia, anzi la preistoria, la ricerca dell’antenato, dell’archetipo primigenio con la sezione Antichi bestioni (lo spunto è una mostra di pittura di Teresa Maresca), nella quale si cerca tra gli «sguardi ottusi» il «messaggio elementare» di un artista (divino, umano?) «primordiale» con ancora il carattere dell’innocenza, della «solenne semplicità» a troneggiare la scena interiore. Come nota Alberto Bertoni nella quarta di copertina, la preoccupazione principale di Cucchi risiede in «un predicato di frugalità: abito mentale dell’io, ma soprattutto medium per umanizzare la realtà». E questa «felicità frugale» si concentra nella traversata di Milano – c’è il passaggio in sottotesto degli amati Sereni e Raboni –, tra acute memorie e rimandi, mentre il verso ormai sborda in prosa poetica, poème en prose. Di sottecchi appare anche il cuore pulsante della città, il Cenacolo vinciano con la sua concretezza, plasticità franta di «ordinaria rêverie» e «sospensione felice», gesto estremo di un’ossessione consolatoria.
La dottrina luziana dell’estremo principiante («sono tornato principiante/ e lo considero il mio solo privilegio») e la diversità dell’idiótēs (privato) dostoevskijano che mantiene tuttavia i caratteri esteriori della socialità, rimbalzano nella coscienza «aerea» di un «possibile futuro», ma ecco che sopravviene à la Bonnefoy l’«illusione ottica», il «miraggio»: la polifonia caratteristica delle modulazioni liriche di Cucchi raggiunge unità di timbro – con sintomatica distanza da Il disperso (recentemente ristampato da Guanda, pagine 96, euro 11) – nella coscienza che soltanto le «nuove epifanie della bellezza», come disse Giovanni Paolo II, potranno ridonare vigore all’esistenza. Nei vicoli di Nizza, «in rue/ de la Providence» o «in rue Saint-Hospice», «su fondo rosso smangiato» finalmente si manifesta il prodigio atteso: «un volto di donna,/ un malinconico volto d’incanto» nel «bianco/ del velo madonnale» che, come in una poesia di Paul Muldoon, Our Lady of Ardboe, richiama la presenza materna irraggiungibile e viva nell’istante, l’immacolatezza di ogni pura femminilità.