Visto al Teatro India di Roma
Un Cechov alla bolognese
Approda a Roma l’innovativa rilettura di Cechov a firma della compagnia Kepler-452, che ha già riscosso grande successo in tutta Italia. Il dramma di Ljuba e Gaev si intreccia a doppio filo con quello di Annalisa e Giuliano, realmente colpiti da un provvedimento di sfratto dopo “trent’anni di felicità in comodato d’uso”
Le grandi opere letterarie prendono spesso spunto da fatti di cronaca, che il genio di un autore sottrae dalla loro contingenza effimera e innalza su un piano universale, patrimonio di tutti. È questo il caso, per fare solo qualche esempio più celebre, di Anna Karenina, ispirata alla notizia di una donna realmente vittima delle rotaie di un treno, o di Robinson Crusoe, riscrittura della straordinaria avventura di un vero naufrago su un’isola del Pacifico. Spesso però può succedere anche l’opposto, che cioè storie e personaggi dei grandi capolavori letterari si inverino in fatti della contemporaneità. In questi casi, il cortocircuito che si crea tra le pagine dei giornali e quelle della letteratura si rivela il più delle volte illuminante: il presente restituisce pienezza di senso ai testi del passato e questi forniscono una chiave privilegiata per decifrare una complessa attualità.
Questo succede alla compagnia di attori Kepler-452, ora in scena al Teatro India di Roma con Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso. Andando per le strade di Bologna in cerca di ispirazione per la messinscena dell’ultimo dramma di Antonin Cechov, la squadra composta da Nicola Borghesi, Paola Aiello ed Enrico Baraldi si è imbattuta in una storia sorprendentemente affine a quella da rappresentare. Nel settembre 2015 un’ordinanza del comune di Bologna impone a Giuliano e Annalisa Bianchi (nella foto a destra) lo sgombero dalla loro abitazione, una casa colonica alla periferia est di Bologna che lo stesso comune aveva concesso trent’anni prima in comodato d’uso gratuito. Le poche righe di quell’atto comunale cancellano come un colpo di spugna trent’anni di vita, in cui i coniugi avevano lasciato un segno inconfondibile in quel luogo, rendendolo al tempo stesso ricovero per piccioni malati, zoo per animali esotici abbandonati, posto di lavoro per carcerati ex-41 bis, centro di accoglienza di una famiglia rom. Questo moderno “giardino dei ciliegi” un po’ fiabesco un po’ surreale viene distrutto improvvisamente per lasciare spazio a un grande parco a tema agro-alimentare, e i due vengono trasferiti in un anonimo residence fatto di linoleum e lampade al neon. Alla mente degli autori, Giuliano e Annalisa sono apparsi fin da subito come l’incarnazione moderna dei fratelli Ljuba e Gaev, gli aristocratici decaduti che nella pièce di Cechov vedono la tenuta della propria infanzia prima messa all’asta per debiti e poi acquistata da Lopachin, presunto amico di famiglia ma in realtà spregiudicato affarista pronto a trasformare il giardino in case di villeggiatura per ricchi.
Nello spettacolo dei Kepler-452 le due storie, il dramma di Cechov e la storia dei nostri giorni, si intrecciano e si accavallano creando di fatto una simbiosi in cui è difficile distinguere dove inizia una o prosegue l’altra. Gli stessi Annalisa e Giuliano, di professione tutto meno che attori, salgono coraggiosamente sul palco, copione alla mano e piccione domestico al seguito. I due recitano le parti di Ljuba e Gaev e così facendo danno un volto nuovo e indimenticabile ai due protagonisti del dramma. Attorno a loro, si muove il coro degli altri personaggi che, nelle parti di loro stessi, raccontano agli spettatori la storia del loro incontro con la coppia ed esplicitano le connessioni con la vicenda cechoviana. Il terzo grande protagonista della pièce è il pubblico in sala, che viene spesso interpellato dagli autori-registi e che, nel terzo atto, viene fisicamente accolto sul palco, a significare come la vicenda rappresentata non sia una mera finzione drammaturgica ma l’approfondimento di una vicenda socio-politica che riguarda tutti. Non semplici ricettori passivi del dramma, gli spettatori sono messi di fronte a quesiti fondamentali della convivenza sociale con l’invito a rispondere ognuno secondo la propria sensibilità. Fino a che punto il bene di pochi è sacrificabile per un presunto bene collettivo? Un luogo è di chi ci abita o di chi lo possiede? Qual è la dialettica oggi fra legge e natura? A rapire l’attenzione del pubblico sono proprio gli attori non professionisti, Annalisa e Giuliano, semplice ma elegiaca la prima, bonariamente rude il secondo. Convincono pienamente anche Paola Aiello e Nicola Borghesi, appassionati ma sobri nel dare risalto a questa tragedia dei giorni nostri. Eccessivamente sopra le righe invece il Lopachin di Ludovico Guenzi, che si riscatta solo nel momento autocritico in cui denuncia l’ipocrisia di certi borghesi solo apparentemente solidali con gli ultimi. Nella riscrittura attualizzata, il testo originario appare certamente sacrificato nella sua complessità, drasticamente sfoltito nel numero dei personaggi e assimilato alla vicenda dei Bianchi al prezzo di più di qualche forzatura. Al tempo stesso, però, l’operazione della compagnia ha il merito di ridare un nuovo senso possibile al capolavoro cechoviano, esplicitando come il giardino del titolo possa anche rappresentare una metafora potente e universale in grado di parlare alla coscienza civica di ognuno di noi.
Ph. Luca Del Pia