L’autoritratto alle Gallerie degli Uffizi
Galliani tra Io e Sé
Prende origine dal nero assoluto la cifra simbolica del maestro emiliano, e in questo nero risiede la visione più autentica. Se ne trova conferma nell’opera destinata al Corridoio Vasariano in cui l’artista è irradiato da punti di luce che traforano il nero. E che evocano costellazioni
«È il cielo che mi guarda o sono io ad essere guardato dal cielo?» è la domanda che Omar Galliani si è posto durante la presentazione dell’opera che l’artista ha voluto donare lo scorso ottobre 2018 alla straordinaria collezione di autoritratti delle Gallerie degli Uffizi, la più grande del mondo nel suo genere. La raccolta, iniziata nella metà del Cinquecento dal cardinale Leopoldo Medici e proseguita da gran parte dei Medici e dai Lorena fino ai oggi, conta una serie di autoritratti di autori di grande rilevanza dal Rinascimento ai giorni nostri, sia tra gli italiani sia tra gli stranieri. Ricordiamo tra i nomi più importanti: lo stesso Giorgio Vasari, progettista del Corridoio Vasariano, il passaggio sopraelevato tra Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti, che passa per gli Uffizi e ancora contiene la maggior parte degli autoritratti; Andrea del Sarto, e poi Canova, Fattori, Boldini, Pelizza da Volpedo, De Chirico, Balla, Marino Marini, Vedova, Pistoletto, Paladino, Clemente, Paolini. Ma anche Mengs, David, Ingres, Corot, Delacroix, e poi Böcklin, Denis, Zorn, Siqueiros, Chagall, Rauschenberg, Kusama, Fabre e molti altri ancora.
L’opera di Galliani, visibile a rotazione insieme ad altri autoritratti negli spazi della Galleria degli Uffizi, è un carboncino e matita su tavola, della misura di 150 centimetri per lato. Una consacrazione per l’artista emiliano, e insieme un nuovo tassello per comprendere la sua arte. Se attraverso l’autoritratto ogni autore inquadra infatti il proprio posizionamento teorico, in maniera più o meno consapevole, rivolgendo lo sguardo su di sé nel momento in cui prende parte del proprio universo figurativo, così Galliani getta un ponte tra lo sguardo introspettivo e l’interezza del cosmo, nella piena consapevolezza di confrontarsi con un canone fondamentale della storia dell’arte.
È la prima volta che Galliani si ritrae e sceglie un taglio ravvicinato, con la testa di profilo rivolta verso l’alto. Non c’è altro modo di rappresentarsi, per il pittore dei volti più belli del nostro tempo, che nelle sue precise sembianze, col caratteristico copricapo così simile a quello dei pittori rinascimentali. Il pittore guarda il cosmo, o forse è egli stesso a essere guardato dal cosmo: l’alterità che l’artista stabilisce tra il soggetto e l’oggetto personificato ci rivela tutto il senso di questa opera, dove il mondo circostante acquista il medesimo spessore psicologico del soggetto che ne fruisce, in un evidente rapporto empatico. L’artista si pone come centro di irradiazione di una serie di punti di luce che traforano il nero, fittamente composti a formare delle costellazioni. Le sagome appaiono tali al pittore che le vede dal suo particolare punto di osservazione, come gli uomini nella storia che hanno scrutato il cielo e hanno cercato di dare una forma, un significato a corpi luminosi solo apparentemente giustapposti in una figura. Dunque ritrarre l’universo significa rapportarsi a visioni cariche di simboli e contenuti, di cui l’artista può cogliere una configurazione soltanto, la più perfetta, nel tentativo ripetuto, spesso fino al parossismo, di fornire un codice di lettura di immagini pregne di senso. D’altro canto l’universo si dispiega in apparizioni che vanno oltre la capacità figurativa dell’artista, per quanto virtuosistica, dove luce e buio, materia e vuoto, si scontrano nel corpo della pittura.
In questa cifra simbolica che prende origine dal nero assoluto, risiede la visione più autentica del maestro emiliano. Due sono i gesti radicali che egli compie, entrambi moderni eppure fondati sul passato: in primo luogo azzera la realtà naturale, facendola sprofondare in un denso buco nero di materia, utilizzando fondi “tenebrosi” che richiamano la pittura caravaggesca o le grafiche simboliste, utilizzando matita o carboncino su tavola bianca, e sommando le linee senza soluzione di continuità, in un horror vacui ossessivo. Dopo aver annullato l’approccio naturalistico, in secondo luogo l’artista fa riaffiorare figurazioni distillate di un universo polimorfo, che racchiude nello stesso tempo simbologie arcane e oggetti quotidiani, abbraccia la spiritualità orientale del gesto calligrafico e mostra la ratio occidentale dell’orbis pictus, nell’ambizione di ritrarre e dare un senso all’intero universo. La tenebra è direttamente proporzionale alla definizione degli oggetti, in un contrasto che sbigottisce tra cancellazione della forma e sua proposizione nell’aspetto più perfetto e seducente. La tecnica stessa è volta alla costruzione di una materia pittorica – tipica di Galliani e totalmente inedita nel mondo dell’arte – con un uso del medium caratteristico del disegno (matita o carboncino) però posto non su carta, ma su tavola, come fosse pittura, anzi come una pala d’altare. Tale strato pittorico acquista una texture morbida e brillante, come il dorso di un pesce che emerga da flutti del mare notturno, è qualcosa di vivo e di per sé stesso compiuto, ma che il pittore non abbandona mai prima di averne estratto una forma pienamente intelleggibile. Ciò che apparentemente è nero, in Galliani non è che un vorticoso sovrapporsi di linee, cerchi, punti, ottenuti con la sottile punta della grafite o del carboncino e a volte con punta di pennello, qualche volta veri e propri colpi inferti sulla superficie della tavola, altre volte “asole” di luce, ricavate annerendo i contorni delle figure che rimangono bianche a stagliarsi sulla tavola di pioppo, con le sue venature intonse.
Silhouette luminose traforano dunque il buio, e tra queste riconosciamo immagini spesso utilizzate da Galliani, come il Buddha, il drago, lo scorpione, il triangolo, le ali, la spada, il leone, le forbici, la mandibola d’asino, il violoncello e le rose. Gli oggetti fluttuano in una sospensione pneumatica, in uno spazio siderale privo di gravità, dove appaiono con una ciclicità connotativa, come simboli ricorrenti nei sogni. In Galliani si apre sempre uno spiraglio tra la visione razionale e l’inconscio più profondo, e con il proprio autoritratto ora il pittore si fa intermediario tra i due regni. Ricordiamo che un’altra opera di Galliani fa parte delle Gallerie degli Uffizi, fin dal 2008 quando fu esposta in una mostra a lui dedicata presso il Gabinetto delle Stampe del Museo. Si tratta del trittico Notturno (nella foto sopra), opera monumentale a matita su tavola, composta da tre pannelli dalla larghezza complessiva di cinque metri e mezzo. Ai lati rose e teschi precipitano nel vuoto in un fermo immagine pure estremamente dinamico, per la rotazione complessa di ogni singolo oggetto. Nel pannello centrale aggalla, anch’esso sospeso nel nero vivido di presenze, un pianoforte a coda nero.