Raoul Precht
Periscopio (globale)

Desmond Doss, l’antisoldato

Ritratto di Desmond Doss, l'obiettore di coscienza che salvò un plotone di militari Usa nella battaglia di Okinawa senza mai imbracciare un'arma da fuoco. Dalla sua storia, Mel Gibson ha tratto un bel film

Una volta tanto, celebreremo il centenario della nascita di uno sconosciuto, o quasi. Il nome di Desmond Doss non è certo di quelli che ci dicano immediatamente qualcosa, salvo forse ai cinefili, che ricorderanno magari un film di due anni fa. Mi riferisco all’inusuale pellicola di guerra La battaglia di Hacksaw Ridge, diretto da Mel Gibson e ben interpretato da un manipolo di ottimi attori come Andrew Garfield, Hugo Weaving, Teresa Palmer e Vince Vaughn, quest’ultimo semplicemente perfetto nel ruolo da can cerbero del sergente istruttore. Dico inusuale perché protagonista del film è un giovane statunitense che combatte in Giappone durante la seconda guerra mondiale e salva decine di vite umane, ma senza mai servirsi di armi.

Questo giovane si chiamava appunto Desmond Doss, era nato il 7 febbraio del 1919 a Lynchburg, in Virginia, e all’epoca dei fatti non aveva che ventitré anni. Avventista del settimo giorno, fortemente legato ai precetti della sua religione ma anche pervaso da quel semplice, un po’ ingenuo patriottismo così comune negli Stati Uniti, pur essendo sposato da pochi mesi Doss parte per la guerra come volontario – per la semplice ragione che in caso contrario si sarebbe vergognato di non essersi offerto, di non aver servito il proprio paese. Dopo un duro tirocinio – molto più duro per lui che per i commilitoni, dal momento che Doss si rifiuta fin da subito d’imbracciare un fucile ed è esposto al nonnismo e all’esplicito disprezzo dei superiori -, viene destinato prima nelle Filippine, poi in Giappone, dove nella primavera del 1945 parteciperà alla battaglia di Okinawa. Tutta la prima parte del film, quella meno spettacolare ma più convincente sotto il profilo psicologico, esamina appunto le motivazioni, religiose, etiche o semplicemente umane di Doss, così come il suo retroscena personale – la figura del padre violento e ubriaco che picchiava la madre, l’incidente durante il quale Doss stesso, ancora un ragazzino, rischia di uccidere il fratello minore colpendolo in testa con un mattone, l’incontro con la futura moglie, infermiera -, permettendo di ricostruire con una certa precisione il percorso spirituale e filosofico che lo porta a scelte di vita fuori dal comune, scelte che in quei frangenti potevano apparire provocatorie.

La seconda parte del film, al netto di qualche insistenza di troppo da parte del regista su scene sanguinose, esplosioni e trucidamenti, è invece molto azzeccata sotto il profilo spettacolare, tanto da ricordare Steven Spielberg e la famosa scena iniziale dello sbarco in Salvate il soldato Ryan. Certo, c’è qualche licenza poetica – per esempio, nella ricostruzione del promontorio da conquistare pare che Gibson abbia lavorato molto d’immaginazione, triplicando l’altezza dello strapiombo lungo il quale Doss calerà i commilitoni feriti, e raddoppiando le dimensioni della collina -, ma nell’insieme, e per quel che conta nell’economia della storia, il regista sembra si sia mantenuto abbastanza fedele ai fatti.

Ma facciamo un passo indietro. Durante il processo che gli viene intentato poco dopo l’arruolamento, e quindi prima della battaglia di Okinawa, a causa appunto del suo rifiuto d’imbracciare le armi, Desmond pronuncerà una frase che riassume il suo modo di vedere la vita: «I don’t know how I’m going to live with myself if I don’t stay true to what I believe» («Non saprei come vivere con me stesso se non rimanessi fedele alle cose in cui credo».) Questa forza di carattere e di volontà, che nasce da una convinzione assoluta e inalienabile e gli consente alla fine di ottenere lo status di obiettore di coscienza – anche se Desmond stesso si autodefinirà piuttosto “cooperatore di coscienza” –, lo porta non solo a superare il processo e i suoi contraccolpi, imponendo la liceità della sua visione delle cose, ma anche a restare nell’esercito (da cui molti vorrebbero congedarlo per comodità) e a ritagliarvisi una propria funzione specifica, quella del “medic”, ovvero dell’infermiere che fa parte integrante dell’équipe sanitaria e in piena battaglia cerca di salvare quante più vite gli sia possibile. In qualità di “medic”, appunto, partecipa ai combattimenti a Guam e Leyte, nelle Filippine, e in seguito alla battaglia tesa a conquistare (a caro prezzo) il promontorio dell’isola giapponese di Okinawa.

La scalata del promontorio, l’Hacksaw Ridge del titolo, è prevista per sabato 5 maggio, e si trasformerà ben presto in un’ecatombe per l’intero 307° reggimento di fanteria che vi sarà coinvolto. In quell’occasione, andando ben al di là dei propri doveri, Doss riesce a medicare e a salvare un numero imprecisato di commilitoni, affrontando da solo e schivando il tiro dell’artiglieria nemica e riportando giù dalla collina i feriti grazie a un sistema di corde creato da lui stesso. Quando il 12 ottobre del 1945 il Presidente Truman gli conferirà la Medaglia d’oro al valor militare (e sarà la prima volta che la Medal of Honor andrà a un obiettore), la motivazione ufficiale ricorderà il salvataggio di settantacinque soldati. In realtà, per l’esercito sono almeno un centinaio, mentre Doss sminuirà sempre la propria azione parlando al massimo di una cinquantina di commilitoni soccorsi e salvati, e non da lui stesso, del resto, ma da Dio, che l’avrebbe assistito e guidato. Settantacinque è dunque il numero su cui esercito ed eroe finiranno per accodarsi, il frutto di un compromesso, e riveste del resto un’importanza unicamente aneddotica: quel che conta, ovviamente, è l’incosciente pertinacia con cui Doss aveva sfidato il pericolo senza flettere un attimo, tanto da meritarsi fra i suoi stessi compagni d’arme, inizialmente perplessi, il soprannome di “Wonderman of Okinawa”.

Dall’altra parte della barricata, per così dire, la battaglia, durata tre mesi, portò alla decimazione degli abitanti – morì un quarto della popolazione, in parte per un suicidio di massa – e alla distruzione di città e villaggi, il novanta percento dei quali furono rasi al suolo. Per non parlare naturalmente delle mine inesplose lasciate a mo’ di orrido memento dalla “pioggia d’acciaio”, come la battaglia stessa fu definita. Anche per Doss le conseguenze non saranno affatto trascurabili: rimasto ferito nel corso di un altro attacco svoltosi qualche giorno dopo, costretto ad automedicarsi e a strisciare per quasi trecento metri sotto una pioggia di proiettili, per i sei anni successivi entrerà e uscirà dagli ospedali, subendo l’asportazione di cinque costole e perdendo fra l’altro un polmone per aver contratto la tubercolosi. Le sue condizioni fisiche gli impediranno di tornare a lavorare stabilmente e finirà per collaborare con organizzazioni e iniziative finanziate dalla sua Chiesa, oltre che a partecipare ad alcuni programmi televisivi, almeno fino a quando, nel 1979, non perderà anche l’udito.

Ma quello che Doss lascia ai posteri, e che in un certo senso è l’opera della sua vita, è la percezione che la volontà e l’abnegazione possano rendere possibile quanto è, se non impossibile, almeno inverosimile. Nella fattispecie, dimostra anche come un nonviolento, una persona che non ammette l’uso delle armi contro un proprio simile, possa essere utile, in casi estremi, alla difesa della patria quanto e forse persino più di un combattente armato fino ai denti, a condizione che il suo contributo sia accettato e tesaurizzato dalla società che lo circonda. A prescindere dalle motivazioni religiose (che avrebbero potuto essere anche altre, e d’altro tipo), l’insegnamento di Desmond Doss merita d’essere ricordato perché si pone in quello spazio o limbo a metà fra realtà e sogno, in cui il sogno, per la sua forza intrinseca, finisce per imporsi anche alla più violenta delle realtà.

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