Cartolina dall'America
Cattiva stampa
Il nuovo documentario di Michael Moore attribuisce alla crisi della democratici e alla trasformazione della stampa parte della responsabilità della vittoria di Trump. Ormai le notizie contano meno dello show
Sono ormai tre mesi che il documentario di Michael Moore Fahrenheit 11/9 è uscito. Sequel del più famoso Fahrenheit 9/11 sulle Torri Gemelle, questo film parte dall’elezione di Donald Trump il 9 novembre del 2016. Eppure non mi pare che ne siano stati compresi appieno il valore e la rilevanza in termini politici. Viceversa le tesi di questo lavoro sono, a mio avviso, essenziali se si vuole continuare a vivere in una democrazia. Si può essere o non essere d’accordo con le opinioni del cineasta/scrittore americano che si chiede come l’elezione di un presidente come Trump sia potuta avvenire in un paese come gli Stati Uniti, dove, dati alla mano, la maggioranza della popolazione vuole che le donne siano pagate quanto gli uomini, crede nei cambiamenti climatici, vuole l’assistenza medica universale, lotta contro i pregiudizi razziali e di genere, vuole una regolamentazione dell’uso delle armi e infine ritiene che ci debba essere un piano di istruzione gratuita per tutte le fasce sociali. “La maggioranza degli americani è decisamente liberal. Noi, i democratici, abbiamo vinto la presidenza e il voto popolare in sei elezioni su sette… Il paese in cui viviamo non vuole i repubblicani alla Casa Bianca… noi siamo la maggioranza”. E dunque gli americani sono in maggioranza favorevoli alle suddette questioni. Allora – si chiede Moore – come è stato possibile arrivare all’elezione di questo presidente?
Concordo con lui su almeno due elementi che hanno determinato questa vittoria: il primo è la mancanza di fiducia nel partito democratico, ormai divenuto establishment, che ha completamente perso il contatto con la gente; il secondo riguarda la trasformazione della stampa.
L’assenza di una strategia politica a lungo termine e l’abitudine ai giri di potere di Washington hanno allontanato il Partito democratico dai problemi delle comunità locali. Michael Moore nel suo documentario mostra ad esempio come l’acqua della città di Flint in Michigan, città operaia già disillusa dal totale disinteresse dei democratici per i problemi della sua classe operaia, adesso, grazie ai maneggi del governatore repubblicano, Rick Snyder, amico di lunga data di Trump, dopo essere stata disconnessa dal lago Huron, sia stata allacciata al fiume inquinato della città e sia risultata avvelenata da una quantità di piombo enormemente superiore alla norma. Questo ha provocato e provoca danni irreversibili alla salute soprattutto nei bambini che si ammalano e muoiono grazie a questa contaminazione. Cosa ha fatto il partito democratico per denunciare e risolvere la situazione? Assolutamente niente. Ha però mandato Obama a mettere in piedi uno show deleterio che ha definitivamente disilluso le minoranze etniche che rappresentano la maggioranza della popolazione cittadina: quelle stesse che entusiasticamente lo avevano votato. Obama infatti li ha rassicurati che quell’acqua era bevibile. Al che queste famiglie che quotidianamente portano i loro figli, gravemente malati, negli ospedali cittadini, oppure piangono le loro morti premature, si sono sentite tradite e abbandonate. Questi sono i tipi di compromessi della peggiore specie che hanno portato fasce della popolazione a votare per Trump. E di esempi come questo se ne possono contare a bizzeffe.
Questi brutti episodi in realtà non solo non hanno prodotto alcun cambiamento, ma hanno esacerbato la situazione. Hanno fatto perdere la speranza nei confronti di possibili trasformazioni dello status quo e la fiducia che i leader democratici fossero lì per rappresentare e difendere gli interessi delle classi meno abbienti. Così molta gente ha votato per quello che ha percepito come il sovvertitore dell’establishment a dispetto della sua volubilità, della sua arroganza, del suo istrionismo, della sua superficialità e della sua impreparazione politica.
La sconfitta, tra i democratici, di Bernie Sanders è stata inoltre percepita come una sconfitta dei ceti popolari che si sono sentiti ignorati e hanno visto le loro richieste disattese. Mentre dall’altro lato Trump si rivolgeva ai minatori dell’Ohio e agli operai della rusty belt del Midwest facendo loro promesse irrealizzabili e guadagnando il loro favore e i loro voti.
Altro punto dolente della situazione è proprio la trasformazione della stampa e il fallimento del suo obiettivo fondamentale: informare.
Oggi tutto è sensazionalismo, breaking news! Tutti i giornalisti, specie quelli televisivi, ambiscono a diventare protagonisti, ad avere il loro momento di celebrità, il loro show sul piccolo schermo anche quando hanno ben poco da dire. Dove è finito il ruolo dell’informazione, quello, spesso grigio e apparentemente poco glamorous, di fornire notizie su ciò che accade capillarmente nel paese, nelle comunità locali, nelle periferie delle grandi metropoli, nei ghetti, nelle campagne e nelle zone industriali dove la gente deve affrontare quotidianamente problemi di ogni genere per sopravvivere? Ci sono migliaia di storie da raccontare, migliaia di situazioni da denunciare. Eppure nessuno ne parla. Certo un twitter di Trump fa più notizia perché su di esso si costruisce un intero programma televisivo farcito di ospiti che in generale sono gratis, hanno ben poco da dire e i cui commenti potrebbero benissimo essere ascoltati al bar del quartiere. E a cui i giornalisti che ospitano lo show non hanno molto da aggiungere se non speculazioni e opinioni personali che non hanno alcun peso o rilevanza sull’andamento delle cose. Così ormai funzionano CNN, MSNBC, Fox news che a questo punto si equivalgono. Perché adesso nel mondo dell’informazione poco importa se sei di sinistra o di destra, quello che importa e avere qualcosa di sensazionale da dire per fare audience. Poco importa se non informi nessuno. In generale infatti si tratta semplicemente di opinioni e non di fatti. E di questo nuovo trend si sono resi responsabili i grandi editori dei giornali come lo Washington Post o il New York Times e i CEO dei canali televisivi che hanno soppresso quella che una volta era la figura dell’investigative reporter che certo richiede uno sforzo finanziario più grande e soprattutto bravi giornalisti. Questi infatti devono inseguire per lungo tempo una storia che porta a far emergere nuove verità o fatti che abbiano rilevanza dal punto di vista sociale e politico. Oggi basta una faccia presentabile o una/un giornalista con un minimo di sex appeal e di disinvoltura e voilà la notizia è confezionata. Il decadimento della stampa americana, è stato di recente lamentato in un convengo sullo stato dell’arte dell’informazione da una figura leggendaria del giornalismo investigativo di Chicago, John “Bulldog” Drummond, specializzato nelle inchieste sul crimine organizzato e sugli scandali politici che infatti ha ammesso che quello che una volta era il reporter investigativo non esiste praticamente quasi più.
Mi ricordo ancora quando, ormai più di trent’anni fa, frequentando alla Loyola University un corso di giornalismo proprio a Chicago, città della politica e di fatti di corruzione clamorosa, il professore, un giornalista della BGA (Better Government Association), un’agenzia specializzata in investigative reporting, ci raccontò in classe che stava indagando su uno scandalo politico che sarebbe esploso di lì a poco. Quando un giorno per caso andai nel suo ufficio della sede centrale dell’agenzia, vidi che sulla scrivania c’era un disordine incredibile; aveva un mucchio di carte, documenti e tra le altre cose un paio di occhiali con attaccati un naso e un paio di baffi finti. Alla mia richiesta un po’ perplessa a che cosa servissero, mi rispose sorridendo che quando andava a incontrarsi con i suoi informatori non voleva essere riconosciuto. Infatti così gli informatori non avrebbero potuto rivelare i suoi lineamenti e in tal modo si sentiva più sicuro. Il codice etico e deontologico del giornalismo americano permette inoltre ai giornalisti di non rivelare mai, eccetto che in alcuni casi gravissimi, riguardanti la sicurezza nazionale, le fonti di informazioni. E dunque se nessuno dei due poteva rivelare chi era l’altro le cose sarebbero state più facili. L’indagine su questo scandalo politico riguardava un presidente di Contea che scambiava offerte di posti di lavoro con prestazioni sessuali. Richiese mesi di pedinamenti, di incontri con gli informatori, di ricerche, di prove e di testimoni.
Ad uno di questi incontri il professore mi chiese se volevo partecipare. Assolutamente senza make up, vestita da ragazzino con un cappellino da baseball, che nascondeva i totalmente i capelli, un paio di occhiali da vista con lenti scure e scarpe da ginnastica, accompagnai il giornalista in un vicolo dove avvenivano questi incontri. Quello che mi venne in soccorso in quell’occasione fu che dimostravo molto meno della mia età. Mi pregò di restare muta, accanto a lui. Dovevo sembrare suo figlio. Ero emozionatissima!!! Mi sembrava di trovarmi in un film, in pieno scandalo Watergate. La cosa mi faceva un po’ paura, ma allo stesso mi elettrizzava. Quello che seppi solo dopo è che il professore aveva ricevuto minacce fisiche se avesse proseguito le sue ricerche che tuttavia invece continuò con perseveranza e coraggio. Ad una delle sue ultime lezioni ci chiese di guardare la sera stessa alla televisione il notiziario delle 19, quello più seguito, ad uno dei tanti canali locali. Lì annunciarono lo scandalo, l’arresto dell’uomo politico, senza neanche nominare il giornalista, ma solo il team della BGA che in uno sforzo comune di vari professionisti era riuscito a portare a galla la verità.
Questi sono i miei ricordi di un giornalismo che ha fornito esempi di indipendenza e libertà in tutto il mondo, perché baluardo delle istituzioni democratiche basate su una libera informazione e spesso su un lavoro di gruppo. Oggi purtroppo la situazione è cambiata sia per la debolezza del partito democratico, sia per quella della stampa. Trump lo sa bene e usa queste crepe del tessuto democratico a suo favore insinuandosi come e dove può. E i danni sono enormi.
E allora che fare? C’è ancora una speranza di cambiamento oppure la situazione è davvero sconfortante? Quando alcuni mesi fa son tornata a Chicago dopo molto tempo che ero stata via, ero un po’ depressa dalle notizie quotidiane e dall’andamento generale della politica in questo paese. Non mi sembrava un momento interessante per l’America. Anzi! Ma in questi ultimi mesi sento invece che è vero proprio il contrario. Adesso è il momento di stare qui, perché la gente, che è stanca della situazione, sente il bisogno di scendere in strada per manifestare, per far sentire la propria voce a livello locale e nazionale. Quando Moore invita alla mobilitazione politica in prima persona e, ovviamente ad andare a votare quando ci sono le elezioni, dicendo che questo è l’unico modo per cambiare le cose, ha ragione. Adesso si cominciano a vedere e ascoltare persone che, chiusa la televisione, letti moderatamente i giornali, vanno a fare volontariato nelle associazioni che si mobilitano per obiettivi sociali nei luoghi di residenza, vanno a cercare le sedi del partito democratico o ove non le trovano si organizzano anche da soli, su obiettivi che interessano la comunità locale. E forse questo invito alla partecipazione o, come si diceva una volta, all’impegno politico è l’augurio che voglio rivolgere per un 2019 più giusto e più umano. Se non per una rivoluzione, certo per una serie di azioni che abbiano a cuore il bene comune. Ne abbiamo bisogno ovunque nel mondo. Buon anno a tutti voi!