La (povera) Italia di Salvini e Di Maio
Faccetta nera?
Nelle pieghe della curiosa vicenda della canzone "Faccetta nera", tra integrazione fascista e censura ai danni di un celebre comico, c'è la rappresentazione dell'idiozia razzista del presente. E della integrazione impossibile
Nella storia della canzonetta Faccetta nera c’è il destino della nostra attuale, miserabile Italia. Se non la conoscete, ve la racconto qui. Datemi solo poca attenzione per arrivare fino in fondo.
È un racconto che parte un po’ di tempo fa. Ho incontrato per la prima volta «Faccetta nera/ bell’abbissina,/ aspetta e spera che già l’ora s’avvicina. Quando saremo/ vicino a te/ noi grideremo/ evviva il duce evviva il re!» negli anni Settanta. Ero ragazzo: la cantavano i protervi picchiatori fascisti che con le catene spiegate aspettavano noi altri disgraziati “compagni” in certe malsane zone di Roma: Vigna Clara, Parioli… Il grido fascista di questi energumeni – alcuni di loro del tutti privi di cervello, sia detto a loro discolpa – aveva il senso di giustificare il modo in cui essi avrebbero cercato di palpare le nostre donne. E siccome le nostre donne – giustamente – si sarebbero ribellate, noi saremmo stati della partita a prenderci la nostra quota di catenate: non era obbligatorio il casco, viaggiando in motorino, all’epoca, ma noi lo portavamo lo stesso per difenderci da altro che dalle cadute sull’asfalto. E sicuramente alla tenuta di qualche vecchio casco devo la mia vecchia vita, ora.
Più grandicello, noiosamente impegnato e volto a capire quel che mi passava intorno, cercai di dare senso a quella canzonetta: si parlava di sesso. Sesso di conquista. I fascisti all’arrembaggio tardivo delle possibili colonie esaltavano la conquista sessuale come un modo maschio per soggiogare il nemico: portarsi a letto le belle abbissine significava assoggettarle per sempre. Razza inferiore, ma con la quale pur sempre si poteva integrarsi, sia pure solo per una notte di sesso mercenario che nessun bravo fascista avrebbe pagato (la canzonetta, abilmente, contrabbandava l’amore con il sesso a pagamento, sempre senza saldare il conto, beninteso). Insomma, io, aspirante intellettuale (scusate la parolaccia) di sinistra (scusate l’ennesima parolaccia), capii che quella canzonetta era pur sempre un inno all’integrazione. Impari, ma integrazione. Fascista, ma integrazione. Meglio di niente, mi dissi. Mal me ne incolse: perché finanche quella miserabile, fascista, violenta integrazione oggi mi trovo a dover rimpiangere.
La vera storia della canzone la seppi poi, quando Anna Campori, una splendida, antica attrice comica della quale divenni amico un po’ dopo, mi raccontò che la musica di Faccetta nera in realtà era la sigla di un popolare comico d’avanspettacolo: Gustavo Cacini. E me la cantò: «L’amore è facile, tutt’è difficile…». Gli stessi versi usati da un altro poeta, con un’altra musica, in un’altra canzone: Tarantelluccia. Il teatro comico popolare era così, mi disse Anna: tutti rubavano a tutti. E pace.
Salvo che Gustavo Cacini, quando la sua musica profusa senza autorizzazione in Faccetta nera ebbe enorme successo popolare, chiese alle leggi di certificare il suo primato per ottenerne soddisfazione in denaro: reclamò i diritti d’autore che gli spettavano. Questa faccenda la conobbi ancora dopo, quando studiando come la mano della censura fascista aveva stritolato i comici scoprii che Gustavo Cacini aveva dedicato un copione alla sua disavventura legale: aveva fatto causa agli autori (plagiari) di Faccetta nera per condividerne il successo economico e il tribunale, invece di sostenerlo, aveva impantanato la questione. Sempre uguale la giustizia in Italia… Il copione in questione si intitola La celebre canzone plagiata ed è conservato all’Archivio di Stato presso il Fondo di Censura teatrale del Minculpop. È un testo del 1936 e racconta l’odissea del povero Cacini per ottenere il riconoscimento di paternità della musica della canzone. Non è un gran copione, lo devo dire con onestà, soprattutto perché la rabbia fa premio sulla comicità. Cacini dispiega il porto delle nebbie, le insabbiature, i “le faremo sapere” e il lontano profilo della giustizia che si incaglia sull’urgenza del privilegio del potere. E del resto va da sé che il testo fu censurato e non poté mai andare in scena: Cacini vi ci narra la sua avventura per tribunali e corti nella quale nessuno vuole prendere posizione in sua difesa e dunque la decisione viene continuamente procrastinata. E finisce con il rammarico del musicista derubato che non può difendere il suo ingegno dalla pervasività aggressiva del regime. Poteva mai andare in scena, in pieno fascismo, una scempiaggine del genere? Solo più tardi seppi come la storia era andata a finire. Ed è questo finale che ci interessa qui, ora.
Ebbene, dopo aver martellato le orecchie instupidite degli italiani con le offensive cazzate di Faccetta nera, il regime improvvisamente la bandì: si accorse – come si disse nei rapporti ufficiali che ho consultato – che l’invito a sedurre e possedere le abbissine produceva figli mulatti e bastardi. Insomma: una maledetta corruzione della razza. E dunque via Faccetta nera da radio e balere, non sia mai che godendosela da quelle parti si mettano al mondo italiani bastardi! Niente integrazione, neppure mediata dalla violenza e dalla sopraffazione: questo fu il contrordine del regime. Sennonché, improvvisamente al povero Cacini fu riconosciuta la paternità della musica della celebre canzone, salvo che a quel punto, visto il divieto di suonarla dovunque, per Cacini si trattò solo di un ennesimo smacco: senza che egli potesse godere di alcun diritto d’autore, gli venne contestata la paternità di una canzone proibita! Va da sé che nell’Archivio di Stato non ho trovato traccia un testo di Cacini, ancorché censurato, dedicato a questo terribile finale di partita.
Quel che è certo è che questi mentecatti d’oggi – Salvini, Di Maio e compagnia bella – non solo hanno nel dna il germe dell’idiozia dei nostri comuni padri fascisti, ma certo non sono in grado di far chiarezza tra integrazione e censura, tra duce e re. Un giorno cantano e un giorno tacciono, per non sbagliare né prendere posizione.