Nei dintorni di Lhasa il Monastero di Sera si trova ai piedi del monte Phurpa Chok Ri, con una popolazione di quasi 6000 monaci. Sera era famoso per gli insegnamenti tantrici (di origine induista), che portano al potenziamento della personalità con la transumanazione e l’identificazione nella divinità; si distinguono dall’ascesi tradizionale detta comunemente yoga. Sera, impostato architettonicamente come un mandala, è tuttora un centro influente a causa della tradizione guerriera dei monaci di questa setta, oggi fortemente anticinese. In un chiostro i monaci studenti dibattono di filosofia per acuire la propria prontezza di spirito con l’assimilazione dei testi. È proprio l’ora giusta e un centinaio di giovani sono radunati al fresco di grandi alberi, ma altrettanti e più turisti sono appostati attorno con i più incredibili corredi fotografici e scattano foto e discutono e i più sfrontati si avvicinano agli imperturbabili allievi monaci che, credo, riflettano di più sulla fauna che li circonda e spesso ridono come si raccontassero barzellette.
Tutto il monte per 1000 metri a salire verso Tsong-kha-pa, è disseminato di luoghi di preghiera e romitori per i pellegrini, sono luoghi che Gianni ama. Le strutture sono alte con sagoma tronco piramidale, poste sull’erta salita. Qui non ci sono turisti, finalmente!. Su massi tondeggianti di roccia granitica delle dimensione di decine di metri sono dipinti enormi Buddha che si vedono da lontano e bandiere di preghiera vibrano nel vento. È un monte della fede e salendo si ritrova il medioevo: qui i monaci vivono in meditazione anche solitaria e si nutrono con le offerte dei fedeli, una mela, un po’ di burro e di tè.
I monasteri non sono solo luoghi di meditazione e di silenzio soprattutto ma di trasmissione e di conservazione della cultura e della tradizione.
Emblematico è il monastero di Drepung aggrappato su una rupe a 8 Km da Lhasa che fu la più potente delle Università monastiche e sede, fino alla costruzione del Potala, del centro del potere politico del Tibet. Nel XVII secolo, sotto il quinto Dalai-lama, raggiunse i 10.000 abitanti: una vera e propria città con collegi, alloggi, templi, botteghe, e l’istituzione monastica diventò allora la più importante del mondo. Tempio del sapere, attirava i più grandi intellettuali laici e religiosi dell’epoca. Nel Tsomchen, grande aula dell’Assemblea di 2000 metri quadrati, tutti i giorni i monaci si radunano su panche rosse con deposti a lato i loro mantelli pure rossi tra le colonne rivestite di panneggi e scritti e lunghe scaffalature di libri sotto lo sguardo di 200 statue, severe raffigurazione dei protettori spesso mostruosi. Le cucine, dopo tante statue, sembrano quelle del Nome della Rosa con marmitte monumentali per preparare i litri di tè che permettono ai monaci di sopportare i lunghi ritiri al freddo. In quelle cucine mi sento a mio agio, apprezzato o meno dai miei amici.
Riesco a comprare un foglio di un manoscritto su carta di cotone in caratteri antichi neri quasi laccati su un fondo di inchiostro pure nero ma opaco: spero che ci siano parole portatrici di fortuna, nemmeno Tienzin riesce a leggerli.
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A Lhasa, al centro di medicina tibetana, il Menzikhang, siamo accolti con riverenza e fascinosa è la visione e l’illustrazione degli antichi tangkha di medicina, i testi canonici che sono grafici di anatomia in pitture d’arte così come la raccolta di strumenti chirurgici e di agopuntura. Ci offrono una visita gratuita da parte dei loro medici e un massaggio tibetano: accettiamo di buon grado. Inizia la scena: due dottori e due dottoresse iniziano chi le visite chi il massaggio con l’aiuto di interpreti. Domande e sapiente ricerca dei punti dei flussi vitali vengono condotte con seriosa compostezza e lunghe chiacchierate e scritte su questionari: alla fine la sorpresa tutti i visitati hanno malattie occulte curabilissime, ovviamente, con ricette tibetane preparabili e acquistabili ipso facto nella loro farmacia. Il preventivo va da 100 a 500 Euro! … sulla salute non si scherza però nessuno ci casca e ce ne andiamo sentendoci malaticci e a disagio quasi messi all’indice da chi con tanto garbo sembrava averci accolto. Ma è una scena a cui va fatta l’abitudine ci sono richieste di articoli a prezzi 4-8 volte superiori in ogni posto consigliato o ufficiale.
Altra cosa è la vita nel quartiere popolare. Da solo con Tienzin girovaghiamo: ci sono baretti con grandi cucine in ghisa con due enormi teiere sempre bollenti per tè e tisane, si possono comprare conigli, polletti vivi, serpenti, rane e altri animali secchi o assaggiare patate stufate che ti offrono cucinate in cilindri di ferro fumiganti, e mele grandi e belle avvolte in un involucro di stoffa a vestitino: le assaporo, buone! Assaggio piatti della cucina tibetana tradizionale: i momo, fagottini ripieni di carne o verdure, cotti al vapore o fritti, la thukpa, minestra a base di spaghettini, verdura e carne, beviamo la Chang, birra d’orzo.
A sera andiamo con Gianni in localini ricavati con garbo da vecchie case ma altrettanto non può dirsi della accoglienza. Non tutti hanno cibi locali, sostituiti ormai da quelli cinesi meno delicati e da bevande sia cinesi che occidentali, tutte carissime. A mezzanotte andiamo nella grande piazza con laghetto e fontane costruita davanti al Potala dai cinesi sul modello dimensionale di Tien An Men e in congruenza con la nuova città anonima. Ma lo specchiarsi sdoppiato del Potala illuminato nel laghetto è uno spettacolo indimenticabile.
Il Potala è il più monumentale degli edifici tibetani, patrimonio dell’umanità. Simboleggia la potenza di questo popolo nel XVII secolo. Al centro culmina con il Tse Potang, il Palazzo della Vetta, che si erge sul colle del Martori, la montagna rossa, 300 m sopra la valle, e ha una facciata a 13 piani, alta 118 m. Alla sua costruzione tra il 1645 al 1694, lavorarono 7000 operai, 1500 artisti tibetani e artigiani nepalesi e cinesi. Nelle sue fondazioni furono colate 3000 tonnellate di bronzo affinché l’edificio resistesse alle scosse sismiche. Il destino del Paese si giocava dentro questo palazzo, difeso dalle imponenti mura, sede del governo e di cerimonie civili e religiose. La presenza dei Dalai-Lama ne ha fatto la principale meta di pellegrinaggi, e la ricchezza delle sale, la molteplicità dei templi e le tombe dei Dalai-Lama affascinano lungo la sorprendente salita con i soliti gradini strettissimi, alti e unti. Ci si tuffa in un labirinto di corridoi, scaloni e templi che racchiudono capolavori dell’arte buddista tibetana sfuggiti alla distruzione per ordine personale, dicono, di Chou En-lai. È un tripudio di statue, tangkha, affreschi, libri, miniature e mobili di grande ricchezza artistica. Ma dove io mi sono soffermato di più è la cappella della longevità!
Domani è l’atteso giorno del viaggio sulla nuova ferrovia più alta del mondo. Lo attendo con ansia anche se mi spiace lasciare Lhasa.
Il percorso in ferrovia: il treno dei cieli. Siamo negli uffici moderni della direzione delle ferrovie che gentilmente ci ha ricevuto e dove ci illustrano l’opera con l’aiuto di belle immagini fotografiche e documenti tecnici.
L’idea del “Treno dei Cieli” tra Xinin e Lhasa nacque da Mao Zedong. La linea è a semplice binario con stazioni distanti circa 100 Km. La prima tratta tra Xining e Golmud, 815 km, venne aperta nel 1984, la seconda tratta di 1147 km è stata iniziata nel 2001 e conclusa nel 2006 con l’80% del percorso a quota superiore ai 4000 metri e il record di 5.072 m al Passo di Tanggula. I trafori sono sette tra cui il Fenghuoshan Tunnel, di 1338 metri a quota 4905 mentre il più lungo, Yang-bajing, di 3345 m è a quota 4264 m. I ponti sono 675 per 160 km. La pendenza massima è del 20 per mille con dislivello di 2263 m.
I convogli hanno le carrozze, costruite dalla canadese Bombardier (360 tra vetture e carri), pressurizzate e climatizzate, con vetri con protezione contro i raggi ultravioletti e riserve di ossigeno per i passeggeri, cui si richiede un certificato di buona salute. Ogni convoglio è trainato da tre potenti motrici accoppiate della General Electric, speciali per l’altitudine, e 17 carrozze per 600 passeggeri. Una unità motrice è dedicata completamente alla climatizzazione e pressurizzazione. La velocità massima è di 120 Km/h con percorrenza dell’intera tratta in 24 h 20’. Il segnalamento è solo a bordo con controllo automatico della velocità e centralizzato via GSMR senza presenziamento. 550 Km della nuova linea sono direttamente a contatto del terreno che, data la temperatura minima invernale di 45° sotto lo zero, è permanentemente ghiacciato, il permafrost.
Questa scelta, effettuata per limitare i costi di impianto e la necessità di infrastrutture, ha però creato altri problemi, dato che d’estate lo strato superiore del permafrost sgela in superficie compromettendo la stabilità dei binari. Per questo le rotaie sono state leggermente sopraelevate e nella zona di Xidatan sono stati infissi, a intervalli di due metri, “tubi termici” a una profondità di 5 metri riempiti di ammonio liquido. Quando la temperatura della massicciata s’innalza, l’ammonio comincia a vaporizzare e sale in cima al tubo. Il caldo allora si disperde nell’aria attraverso un dispositivo di radiazione e l’ammonio si raffredda e ridiscende. Altrove su parte dei terrapieni in permafrost si sono applicati specchi metallici riflettenti o mantelli di massi per diminuire l’assorbimento di radiazioni solari o inserendo tubi in calcestruzzo in grado di favorire lo smaltimento del calore giocando sulle zone d’ombra. L’intera tratta si trova su zona fortemente sismica, specie nella zona del Kunlun, per cui è controllata da una rete di centraline in grado di bloccare il transito in caso di scosse.
Il costo totale della sola ultima tratta sarebbe stato di 4,2 miliardi di dollari di cui 160 milioni per l’ambiente con 33 corridoi migratori. Si prevede un abbattimento dei costi industriali di trasporto del 75%. La stazione di partenza di Lhasa è un grande, accogliente edificio con ampia hall su alte colonne in legno con notevoli capitelli a più travi stilizzate sul tipo classico delle costruzioni antiche. L’imbarco dei passeggeri avviene con controlli come in un aeroporto. La ferrovia è gestita da ferrovieri cinesi in bella uniforme (molti, praticamente tutti i capi, sono ex militari): la capostazione severissima alta ed elegante nella divisa mi nega la foto (che poi ruberò con l’obbiettivo tra le spalle degli amici).
Il treno è al completo, si vedono molti viaggiatori con stupendi costumi mentre sul marciapiede anziani e ragazzini guardano con meraviglia il grande convoglio con le incredibili locomotive verdi. Le vetture sono confortevoli di classe normale. I nostri scompartimenti sono a 4 letti strettolini: ci si arrampica con pioli stretti fatti per piedi cinesi e a me tocca di stare in alto. Ruzzolerò rimbalzando tra i lettini solo una volta meravigliandomi delle mie residue doti di elasticità!
Si parte affrontando subito il ponte ad archi di Sachate che compare brillante nelle sue tre arcate smaltate di bianco, bello. L’altipiano si presenta come una vasta steppa battuta dai venti, su cui sboccano grandi valli tra maestose montagne color ocra, e dello stesso colore è la pietra delle case e masserie ora raggruppate a villaggio ora isolate, tutte simili con recinto di mura quasi a fortilizio tranne i decori delle porte. Via via compaiono i monti più alti: il Geladangdong di 6621m con le sorgenti dello Yangtze, il Fiume Azzurro, che raggiungerà il mare dopo 5800 Km, lo Yu Zhu Feng, la “Perla di Giada”, di 6198 m: la cima, vagamente simile al Monviso, è tormentata dal vento e la neve sale in un pennacchio che scende a coprire i ghiacciai sottostanti e non si vedono seracchi. Altri massicci montuosi innevati imponenti e anche più alti di 7000 m appaiono più in lontananza alla cima delle valli.
Dalle curve della salita della linea si vedono i ponti tutti piuttosto bassi così come lo sono i rilevati: non si vedono tracce di cave di prestito ma d’altronde in simili vastità e con dune così immense di materiale disfatto in pietrame e sabbia l’opera pare insignificante. Numerosissimi sono i fiumi e i torrenti che divagano con pittoresche diramazioni consentendo tramite i box culvert e i ponti facili attraversamenti agli animali tra cui l’antilope tibetana.
Finalmente vediamo mandrie di yak, il re delle montagne tibetane, alto fino a 1,9 m al garrese e pesante più di 7 quintali, coperto da uno spesso manto di vello lanoso nerissimo, a volte bianco e grandi corna. Ci si nutre della sua carne e del latte, la panna per il tè, il burro, il grasso, sono per alimento e per devozione, lo sterco secco per il focolare. La sacca dello stomaco conserva lo yogurt, con la lana si fanno vesti, tende, stivali e la pelle serve anche per costruire le leggere imbarcazioni per la pesca. Compare una grande tenda nera, è un fascino antico che ricorda miti di scoperta. È la zona del “popolo delle nevi”, i nomadi del Tibet anzi più propriamente i “droga”, gli “uomini delle solitudini”, pastori transumanti o seminomadi che vivono in grandi tribù che in inverno scendono sui bassopiani a circa 4000 m, per poi risalire in estate con le tende a 5000 m.
Il treno ha il display con l’altitudine, stiamo viaggiando costantemente alla quota del Monte Bianco! Finalmente una stazione e rapidamente scendiamo per pochi minuti senza nessun malore da altitudine: forse è l’entusiasmo.
Ecco il treno rallentare sotto gli 80 Km/h e finalmente sul display la massima altitudine 5073 m.
Soddisfatti affrontiamo la notte: il cielo è bianco di stelle:
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore……
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
E Leopardi avrebbe ascoltato volentieri il proverbio tibetano: “Nessuno è nato sotto una cattiva stella. Molti non sanno guardare il cielo”.
A mattina passiamo sulle rive articolate del lago salato di Qinghai di 4500 Km quadrati, 13 volte il Garda, a 3200 mt. Il treno scende nella tratta costruita nel 1984 e dalle curve vediamo gallerie e finalmente piante sempre più fitte, sembra la Valle di Susa: stiamo arrivando a Xining dopo 2000 Km di cui 1200 costruiti in 5 anni.
Saranno vere le preoccupazioni che la facilità di accesso al Tibet trasformerà rapidamente la popolazione tibetana in una semplice minoranza etnica, suggellando di fatto l’inclusione del Tibet nei confini della Repubblica Cinese?. Il presidente cinese Hu Jintao ha presentato l’opera come un trionfo, che avrebbe consolidato l'”unità nazionale”. Perché la Cina ci tiene tanto al Tibet? Il Tibet costituisce un vero e proprio mito per i cinesi. Per sfortuna o fortuna gli altopiani si sono rivelati troppo poveri per i coloni cinesi delle pianure e i minerali troppo profondamente sepolti nella roccia per poter essere estratti a costi ragionevoli comunque sono presenti ricche riserve di uranio, borace e litio. Resta il fatto che l’altopiano tibetano è situato in posizione dominante rispetto alla maggior parte delle capitali circostanti: Delhi, Islamabad, Kabul, Dakka, Bangkok e le nuove entità politiche, in parte islamiche, dell’Asia Centrale ex sovietica guardano più a Beijing che a Mosca.
Oggi il Tibet è ancora una terra straordinaria, armoniosamente condivisa da pastori nomadi e agricoltori che sentono fortemente la natura in base all’ancestrale credenza sulla interdipendenza tra le piante, gli animali e gli elementi inanimati del mondo naturale, oltre che alla loro intima appartenenza alla nostra vita quotidiana. Il quinto Dalai-lama pronunciò nel 1642 una sorta di “decreto” per il rispetto della natura.
La bellezza eccezionale degli altopiani, l’imponenza dei riti e la tenacia di un popolo che si rifiuta di estinguersi, sono gli elementi che lo rendono così particolare e affascinante.
Ricorderò questi luoghi con una riflessione buddista citatami in un monastero e letta su tanti volti: “Se incontri qualcuno senza un sorriso regalagli uno dei tuoi”.
2. Fine. Clicca qui per leggere la prima parte