Every beat of my heart
Natale, Paris, Texas
«Dio si fa uomo, bambino, in una grotta, di cui è metafora la poesia, che rappresenta la nascita dell’infinito nel finito». Questo per Roberto Mussapi il senso del Natale, di cui è appassionato e fedele cantore fin dal 1997, anno in cui compose questi versi che presentiamo ai nostri lettori con gli auguri di Buon Natale
Il Natale per me non è occasione di versi come accade, spesso con esiti alti, per molti poeti. Per me è un tema della mia poesia, quasi un genere letterario, con tutti i rischi che la definizione comporta. A volte, poche, prima, costantemente dopo questa poesia che leggete, è soggetto e argomento di miei libri. Ho scritto in versi il Racconto di Natale ispirato al capolavoro irraggiungibile di Charles Dickens, con la speranza di avvicinare il prodigioso cartone animato di Walt Disney, Canto di Natale di Topolino. Poi un altro libro di poesia, ispirato ai miei ricordi dei Natali d’infanzia, Lo stregone del fuoco e della neve. Lo stregone era mio padre, che la vigilia di Natale, accendendo tutto quello che si poteva accendere, luminarie, lucette del presepe e dell’albero, bastoncini che si accendevano e che lui teneva in bocca, suonando il mandolino, riusciva infallibilmente a far nevicare. E poi tanti altri versi su questo evento che, in un momento di riflessione a posteriori sul mio lavoro (meglio, un’intuizione subitanea) compresi racchiudere per me il significato del Natale: Dio si fa uomo, bambino, in una grotta, di cui è metafora la poesia, che rappresenta la nascita dell’infinito nel finito. La grotta non è quella del Platone razionalista, sede di illusione e inganno, ma quella della nascita e del nostro cuore, dove tutto è mistero nel buio povero e primordiale. Ma segnato da una stella, ferma e radiante e apparsa dal nulla, che incanta e rapisce tanto il porcaro sporco e analfabeta del presepe quanto il saggio sacerdote zoroastriano, che la vede di lontano e la segue, certo che significhi un mutamento del mondo.
A questa realtà dei Magi si ispira un mio breve ciclo poetico: tre poesie in cui parlano tre Re Magi. Questa è la prima, dove uno di loro, i grandi sapienti, astrologi astronomi matematici e filosofi, scopre il mistero della Nascita e il mistero, in Maria, della donna. Per questo, nel titolo l’omaggio al film di Wim Wenders, dove non c’è la Madonna, ma solo una donna, perduta e mitemente addolorata e soffrente. Che ho sentito, nonostante le loro ben diverse storie, unificate, povere e miracolanti.
Buon Natale.
Così come la prima neve avvolge gli aghi
e l’abete si placa nel fermo abbraccio,
quel primo grido di nascita mi avvolse
fermando la mia ascesa alle costellazioni,
al fuoco oltre le nuvole,
al mondo degli astri e dei numeri,
mi fece amare saldamente la terra
e nel gelo di quella notte io respirai
il freddo che custodisce la vita,
la mia, quella di ognuno che mi passava accanto.
E come la seconda neve cade e si sfalda,
e lascia solo il ramo, e abbandonata
e desolata la foresta dei simili,
lei che lo aveva condotto nella grotta pianse,
la vidi, e la videro due che incontrai nel deserto,
Rumi, persiano, Omar,
di quella che era stata Cartagine.
Nel buio azzurrato del deserto, sotto la tenda,
io vidi scintillare gli occhi di Rumi
gli chiesi, perché piangi?
«Per Sharazade, di cui conoscevo solo la gioia
del ventre e il piacere delle labbra,
e ora intravedo nel dormiveglia il velo
di pianto che tante volte inumidì i suoi occhi,
patina d’ombra sullo splendore del sangue».
E Omar non lacrimava ma era sveglio,
lo intuii dalla tensione asciutta, diurna,
nel silenzio lucente della tenda.
«Ora capisco la leggenda della mia terra,
e lei che si precipitò in mare dalla rupe.
Credevo fosse puro furore, passione d’amore,
incontinenza e gioia selvaggia,
quel fuoco che anche nella morte ci fa morti ed eterni.
Ora ripercorro le ore precedenti quella morte,
e un dolore che non immaginavo appartenere alle donne.
Ho dovuto arrivare fino a questa terra,
al limite tra l’astro e la grotta per comprendere
lei che per tutta la vita ho avuto accanto.
E tutte coloro che le assomigliarono, come nelle galassie
la luce trema tra l’una e l’altra stella».
E nella notte azzurra del deserto
riverberata in trasparenza sotto la tenda
io nel silenzio astrale spente le sue parole rividi
i fiumi guadati e i boschi, e la sete
e i predoni uccisi tra le dune, per questa soglia
di sabbia tra il villaggio e la grotta,
muti seguendo l’illusione di un astro.
Ma solo loro conobbero l’amore irredimibile,
versato nel breve tempo e nella valle di lacrime,
e il filo doloroso teso dall’origine.
In lei che nella nascita vide già sciolta
nella seconda anche la prima neve,
e lui che era stato voce e miraggio
appena nato condannato a morte.
Non fu mio l’amore, e nemmeno
dei due con cui passai tre notti sotto la tenda,
fu devozione, muta obbedienza a un netto
baluginante apparire di stella.
Lei, solo lei conobbe e soffrì amore,
che nella nascita vide breve il suo tempo,
e pianse la sua fine come se fosse eterna.
Non ci furono parole il resto della notte,
solo gli occhi di Omar lucenti nel buio azzurro
e quelli di Rumi che fissavano in alto
come di chi oltre il tessuto cerca il ricordo.
Allora anche io trascinato da quell’azzurro piansi.
Quello fu amore, che ci fu concesso
quando pensammo a lei e alla sua strada,
sorda in quell’attimo alla resurrezione stessa.
(da La polvere e il fuoco, Lo Specchio, Mondadori 1997, ora in Le poesie, Ponte alle Grazie, 2014)