Intervista a Marianna Miozzo
Riempire i vuoti
Allo Spazio Fattoria di Milano prende vita “La Vedova” di Marianna Miozzo: nell’ambito della rassegna completamente al femminile, Th!nk P!nk, un performing project di teatro danza per fare il punto sul ruolo della donna e della danza
Nell’ambito della rassegna completamente al femminile, Th!nk P!nk, ideata da Francesca Penzo, una delle anime della compagnia di teatro danza Fattorie Vittadini, il 25 Novembre scorso in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, nello Spazio Fattoria di Fabbrica del Vapore nel cuore di Milano, si è esibita per la prima volta sulla scena milanese la coreografa Marianna Miozzo, con il suo lavoro La Vedova in Vuoti nuziali. Direttrice artistica della piattaforma Dancewoods, ma prima ancora ballerina, Marianna Miozzo offre al pubblico uno spettacolo perfettamente in linea con il tema della donna che deve liberarsi dalle varie forme di oppressione che la tormentano; uno spettacolo che come verrà raccontato dall’artista in questa intervista, porta alla luce quanto la danza possa essere un linguaggio espressivo particolarmente comunicativo sotto l’aspetto emotivo e sensoriale, ma come possa diventare anche uno spunto di riflessione e critica sociale.
La Vedova è un “performing project”: in cosa consiste, da cosa nasce?
La Vedova “performing project” è nato, come si usa dire, dalla pancia, da un impulso, ed è difficile definirlo altrimenti, se non così, come qualcosa di viscerale. Oltre al progetto più ampio che comprende performance non fissate in una partitura, anche la coreografia Vuoti nuziali, colonna portante di questo progetto, deriva da vari impulsi. Qui il legame con le emozioni, quelle che senti direttamente nell’addome, è letterale e non figurato. Non avevo nessuna volontà premeditata, nessuna urgenza consapevole. È cominciato tutto senza nessun materiale di partenza, se non il mio stato emotivo: grande tristezza, senso di desolazione e di perdita. Mi sono trovata di fronte a questa condizione emotiva che sentivo appartenermi e ho cominciato a danzare. Riguardando con un certo distacco il video che avevo fatto dei miei deliri danzanti, mi sono resa conto che spiccava una nota molto ironica dal movimento e dalle azioni che sviluppavo nello spazio. L’ironia attenuava quel dolore fino a renderlo una pratica divertente.
La scelta di chiamarla La Vedova non è stata altro che la risposta di colleghi e amici con cui stavo condividendo questo gioco. Seguendo il flusso del gioco, questa figura cominciava ad apparire in una serie di occasioni pubbliche e informali: un locale, piccoli cabaret, piazze e mercati. Lei era solita fare brevi interventi, molto spesso improvvisati e in dialogo con il pubblico. Questo è stato il motore ed infine, La Vedova è diventata satira. Ha assunto un significato politico, perché simboleggia una donna che, costretta a una immagine oppressiva della nostra società, naviga tra l’identificazione in questa immagine e il desiderio di manifestare la sua vera natura. In un secondo momento La Vedova è diventata un progetto articolato in tre filoni: lo spettacolo, Vuoti nuziali; le azioni performative create per spazi alternativi e contesti extra-teatrali; il progetto Social Influencer, in cui si manifesta attraverso video, foto, post della sua vita quotidiana, incontri, pensieri, poesie.
Nell’arco della performance si assiste quasi ad una preghiera, recitata in vestito da sposa: «non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado, chiedo scusa a tutto se non posso essere ovunque, chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna». È un richiamo a quel vuoti del titolo, così familiare alla parola voto nella sua accezione più sacra?
Qui si intersecano vari significanti, che rivelano la prosaicitàà di questa donna che ricerca una sacralità mentre è combattuta dalle grandi domande della società che le impongono di essere quella che non è. Chiede scusa di non poter rispondere come le viene chiesto. I voti, nella loro accezione più sacra, e i voti nuziali, in quanto promesse verso l’altro, sono solo simboli di alcune delle richieste della nostra società. Lei, a quel punto dello spettacolo, cerca di ricomporre un rituale sacro, sapendo di non poter mantenere nessuna promessa perché la sua natura è un’altra. Da qui si definisce il vuoto, lo scarto che c’è tra la promessa e il desiderio insito nel suo essere donna.
La Vedova in Vuoti nuziali è un lavoro in cui è evidente un rapporto viscerale del corpo con il suolo, riscontrabile anche in Fisica di un legame, dove però il contatto con l’altro corpo è predominante. In Vuoti nuziali, inoltre, la ripetizione dei movimenti, anche di quelli più piccoli, è piuttosto presente, martellante, soprattutto se associata alla musica incalzante che accompagna l’intera coreografia. Quali vorresti fosse l’effetto sul pubblico di questo connubio, considerando anche il contesto del Th!nk P!nk in cui ti esibisci?
In “Vuoti Nuziali” il rapporto viscerale avviene sì con il suolo, ma anche con oggetti, pubblico, musica. L’unica relazione non viscerale, paradossalmente, è proprio con la presenza maschile (Riccardo Palmieri) che in scena esegue “movimenti di servizio”. Il loro incontro viene stabilito solo su un piano funzionale e visivo dello spettatore. L’uomo si potrebbe definire il fantasma che risiede nell’immaginario de La Vedova. L’utilizzo di questo movimento viscerale vorrebbe generare un senso di totalità del corpo, preso in considerazione dalla sfera fisica, mentale ed emotiva. Nella danza in generale, vedo sempre più una negazione del corpo, si finisce per identificarsi in uno o più stili, a volte per rispondere a mere esigenze di mercato. Mi interessa la danza di un corpo più consapevole dei sistemi che lo compongono. Consapevole della sua unicità.
Che contributo ha dato Riccardo Palmieri, già attivo nel teatro d’avanguardia con il Cajka e il Drama Teatro, a questo tuo lavoro?
Riccardo Palmieri ha collaborato con me in questo lavoro da sempre, in quanto grande sostenitore della figura de La Vedova. È stato uno dei primi ad assecondare il flusso del gioco di cui parlavo prima. Data la sua esperienza di regista teatrale, molto capace sopratutto nella composizione, ha sempre tenuto uno sguardo di insieme su questo lavoro. In più Drama Teatro è la mia “casa” artistica. Dancewoods, la piattaforma di cui sono direttrice artistica, risiede a Drama Teatro. Sono le due compagnie, Artisti Drama e Dancewoods, a gestirlo. Pur essendo due realtà diverse collaboriamo strettamente dal 2014 e il team di Artisti Drama ha contribuito a questo progetto nell’organizzazione, comunicazione, supporto artistico e amministrativo.
La tua è una formazione classica e contemporanea. In entrambi i casi la definizione del movimento e il suo svilupparsi nello spazio assumono una simbologia ben precisa. Nella performance in genere l’approccio è leggermente, o a seconda dei casi, sostanzialmente diverso: cosa hai portato dei tuoi studi iniziali nei lavori elaborati in questi anni?
Sì, la mia formazione è prettamente accademica. Nonostante mi sia sempre dedicata a più stili negli studi al Conservatorio Profesional de Danza di Madrid, ho sempre avuto più abilità nelle materie improvvisazione e creazione, per questo ho studiato con artisti che mi avvicinavano di più al linguaggio che mi interessava. Per quanto riguarda il rapporto viscerale del corpo verso gli stimoli esterni, è emerso dopo aver studiato con Martin Kilvady, che propone un percorso individuale per cercare il proprio linguaggio performativo: ti mette in una posizione di totale libertà creativa, risvegliando la consapevolezza di potenzialità che non sapevi di avere. L’esperienza di lavoro con la Compagnia argentina La Cabra, poi, ha influenzato sicuramente il mio approccio al lavoro de La Vedova, per quanto riguarda il suo aspetto ironico e il coinvolgimento di vari linguaggi performativi.
In ogni caso, credo che nel mio lavoro emerga una componente soggettiva molto forte, afferente al mio immaginario, e che le esperienze formative siano state in qualche modo integrate dalla coscienza del corpo, non portate alla consapevolezza.
Quanta potenza comunicativa credi abbia la danza nell’attuale panorama delle arti performative?
È una domanda alla quale un artista fa sempre molta fatica a rispondere, perché in un certo senso si vive questo “problema” della comunicazione in modo soggettivo. Bisognerebbe imparare a osservarlo con il giusto distacco per provare a rispondere. Sarebbe bello domandarlo a prescindere dal contesto delle arti performative, e chiedersi che valore comunicativo ha la danza oggi, nella nostra cultura e nella società in generale. Non sento di essere la persona più adatta a dare una risposta, ma con umiltà posso dire che la danza non ha mai smesso di affascinare, di sorprendere, di incantare, a prescindere dal significato che ha inteso veicolare. Ha sorpreso, diviso, avvicinato, anche quando è stata letteralmente fraintesa. E forse questo è il motivo per cui continua a incuriosire generazioni di persone, che scelgono di seguirla – non solo a teatro, ma anche in altri contesti, attraverso altri mezzi di comunicazione, dal cinema alla tv al web – o di praticarla. Tuttavia, per gli stessi motivi su quest’arte continuano a pendere una serie di pregiudizi che la portano a essere considerata un’arte per sole donne e un linguaggio ermetico che non tutti sono in grado di comprendere; quando in realtà è esattamente l’opposto, perché opera su un livello pre-espressivo del corpo, partendo da qualcosa che accomuna tutti, uomini, donne, corpi addestrati e non addestrati, di qualsiasi lingua, età, orientamento religioso e sessuale.
Hai dei progetti futuri oltre ai workshop che Organizzi per professionisti e amanti della danza?
Nel 2019 ho previsto una nuova produzione di cui, per scaramanzia, non voglio ancora svelare il tema. Vorrei anche realizzare un progetto con La Vedova che è in cantiere da molto tempo: “VEDOVA COAST TO COAST”, una performance ‘on the road’ in cui il pubblico coincide con le persone che lei incontra, e la scena con le pianure del Midwest. Un incontro con i cliché americani. Il viaggio diventerà un documentario sul confronto de La Vedova con i luoghi comuni della cultura globalizzata per eccellenza. Poi ci sono altri progetti in collaborazione con artisti visivi di cui cito volentieri i nomi: Andy Wood (film maker) e Quiet Ensemble (collettivo artistico che unisce le arti visive alle nuove tecnologie).