Parole e ombre/19
Il lavoro degli altri
"Lavata e vestita abbaia un saluto al marito. Mario ha forse un ricordo lontano di giorni in cui quel latrato era sostituito da un bacio leggero, biascica qualcosa di incomprensibile di rimando e si rannicchia nel bozzolo tiepido delle coperte"
Mario la mattina dorme. Sua moglie Giovanna no. Lei si alza di malavoglia dal letto, struscia le ciabattine sino in cucina e, palpebre ancora appiccicose di sonno, armeggia tra le stoviglie in cerca della caffettiera. Un leggero fremito al contatto di una superficie fredda e spigolosa la avverte che ha tra le mani ciò che cerca. La riempie di acqua e miscela con gesti che cominciano a farsi pian piano più lucidi, la posiziona sul fuoco. Prima che il caffè cominci a gorgogliare, Giovanna torna prima in camera da letto dove prende i vestiti – anche la canotta di lana che oggi fa freddo – poi in cucina, dove si ustiona i pensieri col caffè bollente. Quindi punta dritta al bagno. Lavata e vestita abbaia un saluto al marito. Mario ha forse un ricordo lontano di giorni in cui quel latrato era sostituito da un bacio leggero, biascica qualcosa di incomprensibile di rimando e si rannicchia nel bozzolo tiepido delle coperte.
Giovanna in ascensore incrocia Giuseppe, pensa “che bell’uomo” ed il timido buongiorno che si scambiano la fa arrossire d’imbarazzo. Lei crede faccia l’architetto, in verità dipinge e si firma Josè. E’ ricco di famiglia e i soldi non gli mancano, ma è convinto che un giorno le sue tele saranno quotate in vere gallerie d’arte e non in spazi autogestiti. Mentre le porte dell’ascensore si aprono Giuseppe-Josè immagina l’attraente semplicità di questa donna impressa su tela e rovista nel vocabolario mentale in cerca delle parole meno assurde per chiederle di posare per lui.
Ne trova un paio quando le porte scorrevoli hanno oramai esaurito la propria corsa e la donna che lo ha fatto tornare timido come un adolescente sta per uscirne.
“Dev’essere difficile”, le dice.
Giovanna si ferma. Ha un attimo di indugio, poi, senza girarsi “Cosa?”.
“Gli occhi. I tuoi occhi. Io dipingo e mi chiedevo quanto debba essere difficile riprodurli in un ritratto”.
La risposta che le giunge alle spalle la stordisce, nelle corde di quella voce esitante Giovanna legge un invito. Un invito bagnato in un inconfondibile vena di desiderio. A una donna certe cose non puoi nasconderle.
Giovanna si gira, vuole guardare il viso di quest’uomo, deve essere sicura di quello che sta accadendo. Lentamente, ad appena un passo di distanza, gli sguardi si incrociano e lei capisce. È lusingata come non lo era da tempo ed emozionata come forse non è stata mai. “Non so se riuscirò a tenerli immobili a lungo”. È l’unica cosa che riesce a dire con il filo di voce che ancora le rimane.
La donna in disparte che osserva la scena senza essere vista si muove solo quando vede i due incamminarsi insieme. Non era tanto vicina da ascoltare i dialoghi, ma anche lei ha capito tutto. Un giorno le capiterà qualcosa di simile, ne è certa. La vita glielo deve.
Lei vorrebbe farsi chiamare con il suo vero nome, Guendalina, ma i suoi clienti la chiamano soltanto Lina. Loro la accolgono in casa propria e lei li accoglie dentro di sé. A sua madre e a sua figlia al di là dell’oceano racconta che ha trovato impiego come assistente sociale, e in fondo non crede di essersi allontanata troppo dalla verità. Il primo della giornata si chiama Mario e si è raccomandato che arrivasse il prima possibile perché questa settimana ha il turno serale e dopo vuole dormire.
Piero Fittipaldi. Per un peccato di gioventù si laurea in economia aziendale, poi si ravvede, chiede scusa, e si specializza in copywriting. Si diverte a scrivere racconti e fa colazione sciogliendo nel latte una nota polvere di cacao per bambini, sperando probabilmente di rimanere tale. Una delle parole che preferisce è “croccante”. Una di quelle che non vorrebbe usare mai più è “esclusivo”. Ha scritto campagne pubblicitarie, liste della spesa, discorsi, spot radio e video, post, biglietti, dediche, cruciverba, biografie, cataloghi, siti web, presentazioni, articoli, complimenti, insulti, concorsi, regolamenti, ricette, etichette degli ingredienti e qualcos altro che è meglio non citare. L’ha fatto per imprese, amici, parenti e familiari; ma soprattutto per se stesso. Giura che un giorno scriverà anche qualcosa di serio.
Marco Pasqua. Nasco a Roma a marzo del 1959. Mi avvicino alla fotografia nel ‘77, riprendendo manifestazioni di piazza, concerti al Palasport, realizzando manifesti e servizi per i musicisti italiani. Il mio inizio è in pellicola, con una predilezione per il 4×5, anche se oggi non ne sento la mancanza (anche se ai vecchi amori non si rinuncia mai). La fotografia mi consente di spaziare in varia ambiti e così di volta in volta sono stato etichettato come: ritrattista, paesaggista, sportivo (sono un motociclista da sempre), fotografo di still-life, di teatro, musicale… Molto più semplicemente ritengo che le persone, le emozioni, le storie, le fantasie siano molteplici, mentre la fotografia invece è una sola e solo un mezzo per raccontare come vedo quel che vedo. Esposizioni personali presso PellicanoLibri, Ottobre in Poesia (Sassari), EssereFotografi (Prato), e collettive: Darkroom Project (Muro Leccese), “Il mostro” (Roma), “Les rencontres de la photographie” (Arles).