Chiara Ragosta
Intervista a Erika Janet Rinaldi

Teatro, dunque sono

Dal 31 ottobre al 2 novembre al Teatro di Documenti di Roma va in scena “IL CLAN. Settemilatrecento Lune”, di e con Erika Janet Rinaldi per la regia di Alejandro Radawski. Riflessione nuda e cruda sul significato di purezza e di appartenenza con gli attori di “YOSOY Compagnia Teatrale”

Germania, 1950: cosa nasconde una misteriosa e riservata famiglia, i cui membri femminili vivono reclusi all’interno delle quattro mura domestiche, senza possibilità di contatto con l’esterno? Un oscuro e incestuoso rito ventennale sta per ripetersi, frutto di un patto stretto tempo prima tra il capofamiglia Romero e il padre per salvaguardare la purezza della linea di sangue. Ultima vittima di questo perverso piano è Angustia, la quale tenterà di ribellarsi alla sua sorte. È questa la trama de IL CLAN “Settemilatrecento Lune”, opera prima della YOSOY Compagnia Teatrale che andrà in scena dal 31 ottobre al 2 novembre al Teatro di Documenti (Roma), per la regia di Alejandro Radawski. Abbiamo incontrato l’autrice del testo, la drammaturga italo-argentina Erika Janet Rinaldi, che ci ha raccontato qualcosa in più del suo spettacolo e del suo lavoro.

A cosa si è ispirata per la storia de “IL CLAN”?
È una storia nata e cresciuta dentro di me giorno dopo giorno. Dopo mesi e mesi a pensarci su, nel 2015 ho deciso che andava scritta e raccontata, senza presumere di farla diventare prima o poi un testo teatrale. La trama è incentrata sulla crudeltà e sul potere esercitati dal leader Romero all’interno di una famiglia chiusa in se stessa, che si ritiene perfetta rispetto al resto della società e, per questo, deve mantenere intatta questa “purezza” di sangue.

Quali sono i temi affrontanti?
La decadenza umana e il male che l’essere umano può fare esercitando un potere materiale e superficiale. Ciò, a causa di due assenze: amore e Dio.

Cosa rappresentano Romero e Angustia?
Romero, il capofamiglia, è il personaggio principale e rappresenta il potere nella peggiore delle sue manifestazioni. Angustia, invece, raffigura la sottomissione della donna, la privazione della libertà. Lei vorrebbe ribellarsi e vivere un’esistenza che non conosce, ma che crede sia migliore di quella che è costretta a sopportare rinchiusa in casa, come Berta [la madre, ndr] e Clemen [la nonna, ndr]. Angustia non ha percezione di altra realtà se non la propria e ritiene che quella sia la verità. Spera, però, che arrivi colui che la renderà libera: un’utopia che non si realizza perché lei vive rinchiusa, i suoi spazi sono limitati. Spazi circoscritti non solo fisici, ma anche mentali: una reclusione che porta Angustia a non riconoscere neanche se stessa. È una condizione, a pensarci bene, comune oggi a molte altre donne nel mondo, le quali soffrono tantissimo per una persona che fa credere loro di avere la verità in tasca e che le priva, così, della libertà di scegliere.

Lei sarà anche sul palco come attrice: in quale ruolo?
Angustia, per scelta del regista Alejandro Radawski. Non mi sento particolarmente vicina a questo personaggio, perché io al contrario ho avuto una vita all’insegna della libertà, fortunatamente. La mia famiglia mi ha lasciato essere e fare ciò che più desideravo, augurandomi sempre il meglio. Non ho vissuto esperienze di sottomissione o di privazione per colpa del potere altrui, ma ho dovuto avvicinarmi a lei studiando la sua sofferenza. Ho lavorato molto per trovare dentro di me questo personaggio.

Perché Settemilatrecento Lune? Supponendo che esse siano intese come notti, corrisponderebbero a circa 20 anni…
Esatto! Ogni vent’anni infatti, o meglio ogni settemilatrecento lune, si ripete per il clan quel patto che Romero ha stretto con il padre tempo addietro, ossia di non mescolare il proprio sangue con quello degli abitanti argentini del paese dove sono emigrati, ma di mantenere la razza pura. Ogni vent’anni, quindi, all’interno della famiglia, la donna-oggetto è costretta a sottostare a questo rito: ora tocca ad Angustia, ultima giovane e bella vittima del leader. Ma cosa succede a colei che 20 anni prima ha subito la stessa sorte? Prima Clemen, sorella-sposa di Romero e nonna di Angustia, e poi Berta, madre della ragazza e figlia-sposa del capofamiglia, vengono messe da parte: non servono più, ormai sono vecchie.

Sul palco gli attori sono uniti da due comuni denominatori: il teatro e la lingua italiana. Qual è per Lei il linguaggio universale?
Per me, il linguaggio universale è l’amore. Nella vita come sul palcoscenico. E l’amore per il teatro e la lingua italiana, in questo spettacolo, fanno unire artisti da tutto il mondo. Con l’amore e la passione possiamo fare quello che vogliamo.

«I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo» sosteneva Ludwig Wittgenstein. «Non si vive in un paese, si vive in una lingua» scriveva Emil Cioran. Quanto è d’accordo su queste due affermazioni?
Non sono molto d’accordo con Wittgenstein: possiamo scegliere di aprirci oltre i nostri limiti, perché abbiamo la capacità di cambiare e crescere. Io ritengo che siamo tutti uguali e che il mondo sia di tutti, senza frontiere o recinti. E che l’amore sia l’unico mezzo che unisce tutti noi. Come essere umani abbiamo il dovere di comprendere ciò. Viviamo nella “lingua” della vita, dell’amore e dell’unione e solo così potremo arrivare lontano. Mi sento più vicina al pensiero di Cioran.

Chi vorrebbe seduto tra il pubblico a vedere lo spettacolo? Che tipo di reazione vorrebbe provocare allo spettatore?
Tutti gli esseri umani, il popolo, quelli che conosco e coloro che ancora non ho mai incontrato, senza distinzione di classe sociale o professione. Come sarà la reazione del pubblico? Dipende. Credo che, inizialmente, ci sarà uno shock, non capirà tutto ciò che vedrà. Penso che gli spettatori si faranno tante domande e non so quante risposte si daranno. Lo spettacolo sarà come uno “schiaffo”, un tentativo di “svegliare” chi lo sta guardando e proporre una riflessione sulla sua responsabilità in quanto essere umano: di fronte ad un caso simile, come si comporterebbe? Farebbe finta di nulla, o reagirebbe?

Cosa ne pensa del lavoro del regista Alejandro Radawski sul testo?
Il lavoro che sta facendo mi piace: è diverso, interessante, preciso. Radawski ha capito bene l’essenza dell’opera. È la prima volta che, da attrice, mi cimento in una regia così particolare. Benché il testo fosse mio, non sono mai intervenuta per correggere o suggerire modifiche nella sua versione dello spettacolo.

Com’è nata la collaborazione fra voi?
Nel 2015 seguii un seminario con lui e iniziai a scrivere, con la sua consulenza, questa mia prima opera teatrale, IL CLAN per l’appunto. Ricordo che, quando finii di redigere le prima quattro scene dello spettacolo, si complimentò perché ero stata così brava che non gli sembrava la mia prima esperienza con la drammaturgia teatrale. Per me fu molto gratificante ricevere degli elogi da un professionista come lui. Così iniziò la nostra amicizia. Quando decisi di mettere in scena la mia opera, a Roma e in italiano, lo contattai e gli chiesi se volesse lavorare con me. Mi rispose di sì e che si sarebbe occupato della regia.

Tre aggettivi per descrivere IL CLAN?
Forte, profondo, mobilizzante.

Lei è più per l’emotività o per la razionalità a teatro?
Entrambe, ma propendo per l’emotività.

Cosa Le piace del teatro italiano?
Tutto: il metodo, come si presenta, come si evolve. Prima di venire in Italia, culla dell’arte e terra del mio bisnonno, sognavo ciò che avrei visto e fatto. Non sono arrivata con la presunzione di cambiare il teatro. Mi piace tantissimo anche il cinema italiano, in particolare il genere drammatico. Tra i miei preferiti La vita è bella di Roberto Benigni (l’ho visto più di cento volte) e La strada di Federico Fellini: mi piacerebbe poterlo interpretare un giorno.

Discende da emigrati italiani in Argentina e, ora, vive in Italia: cosa pensa di questo Paese?
Devo ringraziare tantissimo l’Italia perché mi ha dato tutto, anche più di quello che desideravo e pensavo di trovare. Il mio bisnonno, una volta emigrato, non tornò più. Io sono la sua erede e sono giunta qui con l’emozione e il sogno di conoscere la sua terra, la Sicilia, e la sua gente, ritrovando in esse un po’ di lui, come per conoscerlo meglio. L’Italia è bella tutta e io la amo: mare, terre, persone, paesi. Ho trovato porte e braccia aperte ovunque andassi.

Le manca l’Argentina?
Sì, certo. Anche il mio Paese di origine e la mia famiglia mi hanno offerto tante possibilità, tra cui quella di potermi trasferire qui. Amo l’Argentina come amo l’Italia, sento i due Paesi come uno solo. Tanti anni fa, i miei bisnonni lasciarono la loro terra per cercare fortuna in Sud America. Ora sono io che “torno indietro” per inseguire i miei sogni.

Può raccontarci qualcosa della YOSOY Compagnia Teatrale?
Il nome è formato da una prima parte in spagnolo, “Yo soy”, ovvero “Io sono”. E poi la seconda parte in italiano, “Compagnia Teatrale”. Ho scelto questa denominazione perché io credo in Dio e in Gesù: quando Cristo scese sulla Terra disse “Io sono”, “Yo soy”. Tutti noi dovremmo ripetercelo: “Io sono” e nessuno può farmi credere di essere meno. La Compagnia Teatrale è così: artisti di tutto il mondo che, con amore, aprono le porte ad altri e invitano a lavorare insieme, senza limitazioni. Siamo tanti, diversi, ma uniti sotto un unico “Yo soy”. È l’essenza di questa nuova compagnia.

Non solo drammaturga, Lei è anche attrice di teatro, cinema e tv in Argentina. Balla e canta, inoltre. Un’artista eclettica, ma quale delle attività che La vedono impegnata preferisce?
Preferisco fare l’attrice e la drammaturga, ma se posso solo recitare e ballare è ancora meglio [ride, ndr]. Scherzo: mi piace fare tutto. Non voglio pormi limiti. Anzi, in futuro, spero di poter studiare, conoscere, imparare ancora di più. Essere attrice, però, è sempre stato il mio desiderio più grande, lo ammetto. Fin da prima che nascessi, penso.

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