La morte del padre della Marvel
Ultimo uomo ragno
Elogio di Stan Lee, il creatore dei “supereroi con superproblemi”. Più che un semplice disegnatore, un uomo che ha dato alle "persone normali" la possibilità di sognarsi eccezionali
All’età di 95 anni è morto Stan Lee, il padre fondatore della Marvel Comics e il creatore dei “supereroi con superproblemi”, con capostipite Spider-Man, (l’Uomo-Ragno per noi nati negli anni ’60) e a seguire, il mondo mutante degli X-Men, i Fantastici Quattro, gli Avengers, Iron Man, il Dr. Strange, Thor, Hulk, Daredevil…
La sua fu una rivoluzione iconica: il supereroe non doveva essere più onnipotente e onnisciente, un dio mitologico nascosto tra gli umani da un semplice paio di occhiali o un cavaliere oscuro che combatte la criminalità grazie alle sue sconfinate risorse da miliardario. Il supereroe doveva essere l’uomo della strada, il ragazzo “nerd” vicino di casa, il nostro amichevole Uomo Ragno di quartiere: anche Thor, potente dio norreno, era in realtà un povero medico zoppo che si trasformava colpendo la terra con un bastone incantato. Per accentuarne la fragilità umana, spesso Stan Lee caratterizzava i suoi supereroi con un handicap fisico: la cardiopatia di Iron Man, la cecità di Daredevil, le lesioni alle mani del chirurgo Stephen Strange, la diversità genetica e mutante degli X-Men, che diventò poi, grazie alla genialità di Chris Claremont, la bandiera vincente della Marvel per un ventennio.
Noi stiamo dalla parte degli ultimi, questo era il credo di Lee, i nostri eroi devono patire mille sofferenze prima di trionfare e, anche quando trionfano, c’è sempre un risvolto amaro dietro l’angolo, non ci sarà mai una vittoria chiara e lampante nelle sue storie: l’ebreo Stanley Lieber assieme al suo compagno di ghetto Jacob Kurtzberg (Jack Kirby) si porteranno dietro la diaspora, la rassegnazione alla distruzione dello shtetl, i tormenti di Giobbe, le piaghe della Shoah e trasformeranno l’epopea del profugo giudeo in una saga fantastica e profondamente urbana al tempo stesso.
Non è un caso che Hulk, nato graficamente sul modello del mostro di Frankenstein, sia in realtà il Golem vendicatore e giustiziere del ghetto di Varsavia, una potenza oscura e pericolosa, ma che si erge con la sua forza incommensurabile a difesa dell’umanità, trasformando la sua rabbia in forza, il suo essere giudeo cacciato e reietto in rivalsa. Golem grigio terra, questo era il colore originale di Hulk, trasformato poi in verde per problemi di resa grafica.
E non è neanche un caso che le ambientazioni predilette per le storie della Marvel siano i grattacieli e i vicoli di New York, la squallida periferia del Queens per Peter Parker, Spider-Man, la pericolosa Hell’s Kitchen per Daredevil: questi sono i vicoli dove Lee è cresciuto, è l’umore della città dei profughi che compenetra le sue storie.
E non è un caso che, da Editor-in-chief, cercasse un ordine divino in tutte le storie prodotte nelle “Casa delle idee” con l’invenzione della rigorosa “continuity”, con la pretesa che tutte le storie si sviluppassero con un medesimo fiato, con una coralità da midrashah, con un rigore talmudico di apparizione cronologica dei personaggi: se il Dottor Destino si perdeva nel continuum spazio-temporale in una storia dei Fantastici Quattro non poteva apparire lo stesso mese, come se niente fosse, in una storia dei Vendicatori.
E come il simbolo dell’ebreo è l’uovo, che più lo metti sulle fiamme più si indurisce, così il nostro eroe prediletto, il teen-ager Peter Parker, deve patire sofferenze su sofferenze per diventare uomo: viene umiliato, angariato dal bullo Flash Thompson, deve accudire una fragile zietta sempre in punto di morte, non ha soldi, è uno sfigato con gli occhialoni, che si veste da sfigato con giacca blu, gilet giallo e cravatta rossa; anche quando si trasforma nell’Uomo-Ragno le sue sofferenze non diminuiscono, anzi: è cacciato come vigilante dalla polizia, vessato dagli attacchi del Daily Bugle e di JJ Jameson, pestato a morte dal dottor Octopus…
E noi lo adoriamo, noi ragazzini obesi e miopi ci identifichiamo in lui, lui ci dà conforto, mentre lo leggiamo di nascosto con una torcia sotto le lenzuola ruvide. Ce lo scambiamo di nascosto, perché ai nostri genitori l’Uomo-Ragno non piace: è violento, dicono, e poi devi pensare a studiare. Ma io ho continuato a seguirle, le storie di Stan Lee, a nascondere i fumetti dietro la schiena, sotto il maglione, dove nessuno se ne accorgeva. Ancora adesso sento l’angolo dell’albo pungermi le vertebre ed è un pizzicore che mi fa compagnia, quasi fosse il senso di ragno.
Io, lo spirito di Stan-Lee e dell’Uomo-Ragno me lo porto dietro ancora adesso, continuo a leggere i fumetti della Marvel, vedo le serie, i film, ho contagiato mia figlia… Senza l’identificazione con Peter Parker non mi sarei mai salvato da un’infanzia complicata, sempre al margine, e a questo amore per la Marvel ho dedicato il mio romanzo “Minchia di mare”, dove il ragazzino protagonista, Davide Buscemi, cerca di sfuggire alla violenza del padre appendendosi con la ragnatela alle lenzuola stese della vicina di casa, la terribile Vedova Nera.
Stan Lee se n’è andato e se ne va con lui un pezzo di cuore: non cercheremo più i suoi “cameo” in tutti i film della Marvel, non discuteremo ancora una volta con chi lo accusava di aver rubato storie e idee ai suoi disegnatori – Jack Kirby in testa. Noi, “true believers” siamo in grado di riconoscere nella singola frase l’impronta del “Genius”: il suo baffo sorridente si annida dietro ogni “Fiamma!”, “Hulk spacca!!, “Per le venerande schiere di Hoggoth”, “Vendicatori Uniti!”, “Imperius Rex” ed “È tempo di distruzione!”.
Perché in fondo lo sappiamo che le porte del Bifrost si sono spalancate per Stanley Martin Lieber da Brooklyn, New York, che i giardini del Valhalla lo accoglieranno mortale tra gli immortali. Perché in fondo lo sappiamo che ogni Fenice rinasce dalle ceneri, che il suo corpo verrà ibernato nel ghiaccio per le generazioni future e che i veri supereroi tornano sempre, non muoiono mai.
EXCELSIOR!