A proposito di "Lungara 29”
La morale italiana
La pubblicazione delle lettere di Leone Piccioni al fratello Piero, detenuto ingiustamente nel 1954, ci impone di rileggere la clamorosa macchinazione politico/giudiziaria che, attraverso il pretestuoso coinvolgimento del musicista in un omicidio, distrusse la carriera politica del padre Attilio. Una storia di inquietante attualità
Rileggere la storia può far bene: ci si ritrovano dentro le ragioni di quel che siamo e di quel che non siamo. Ma ci si ritrova anche anche il marcio che ristagna, persiste. Prendete Lungara 29, un prezioso libro sul cosiddetto caso Montesi pubblicato da Polistampa (200 pagine, 16 Euro). Si tratta di una raccolta di 27 lettere spedite da Leone Piccioni al fratello Piero recluso a Regina Coeli (il vecchio carcere di via della Lungara, a Roma, appunto) mentre quest’ultimo era recluso, a fine 1954, con l’ingiusta accusa (venne prosciolto completamente e definitivamente da ogni addebito) di essere in qualche modo coinvolto nella morte di una ragazza romana, Wilma Montesi, trovata senza vita sulla spiaggia di Torvajanica nell’aprile del 1953.
Fu un caso assai clamoroso, perché Piero Piccioni, oltre ad essere un ottimo musicista (autore di numerose, celebri colonne sonore) con la passione del jazz, era anche figlio di Attilio Piccioni. In quelle settimane, Attilio Piccioni, tra i fondatori del partito della Democrazia cristiana, era il naturale candidato alla successione di Alcide De Gasperi, morto proprio nella primavera del 1954. Guarda caso, all’indomani della morte dello statista trentino, il figlio di Piccioni venne chiamato in causa nel caso Montesi. La vicenda giudiziaria apparve subito opaca: uno dei miei maestri di giornalismo, Arminio Savioli, che nel 1954 era un giovane cronista giudiziario de l’Unità, molti anni dopo mi disse che tutti gli osservatori all’epoca erano convinti che quel processo fosse solo una macchinazione ordita dagli avversari politici di Attilio Piccioni, benché pochi lo abbiano scritto, all’epoca.
Eppure, Piccioni senior (in quei mesi prima presidente del Consiglio incaricato, poi Ministro degli Affari Esteri, nella foto accanto con Fanfani e Moro) decise di fare un passo indietro e di dimettersi da ogni carica, per non rischiare di “macchiare”, sia pure per interposta persona, l’immagine delle istituzioni. Come s’è detto, dopo tre mesi di detenzione, Piero Piccioni fu prima rimesso in libertà vigilata e poi, al termine di un lungo e complesso iter giudiziario, totalmente scagionato. Ma a quel punto, la gestione della Dc era passata nelle mani del giovane e intrigante Amintore Fanfani il quale, pur partendo da posizioni popolari, approfittò del suo successo per portarla nelle braccia della destra d’allora.
Insomma, la storia ci dice nettamente, inequivocabilmente, che il caso Montesi – tramite il coinvolgimento pretestuoso di Piero Piccioni – favorì la scalata di Fanfani nella Dc e modificò fortemente il destino del nostro Paese che allora, prima con l’ultima fase politica di De Gasperi e poi con Attilio Piccioni, marciava verso un accordo storico tra il blocco popolare e quello socialista d’ispirazione “democratica”. Accordo che, dopo lo stop imposto da Fanfani nel 1954, dovette aspettare nove anni per essere realizzato (grazie al lavoro politico di Pietro Nenni e Aldo Moro). E sappiamo bene che la cosiddetta stagione del centrosinistra (quella dell’accordo di governo tra Dc e Psi) è stata la più feconda nel nostro secondo Novecento in termini di riformismo e equilibrio sociale. Nove anni di ritardo non sono solo tanti, sono inutili.
Questa lunga premessa è indispensabile alla corretta lettura del libro in questione (nel volume, la limpida introduzione di Stefano Folli serve proprio a ciò). Perché la famiglia Piccioni (la nostra Gloria Piccioni – che di Attilio è nipote, e che di Leone, autore delle lettere, è figlia – ha curato il volume) per la prima volta dal 1954 dice qualcosa di pubblico sul Caso Montesi. E questa è già un’altra lezione della storia: pensate alla sobrietà e allo stile di una famiglia così in vista che per più di sessant’anni mantiene il riserbo su una vicenda (falsa, montata ad arte come è dimostrato da processi e sentenze) che l’ha letteralmente gettata nel fango! Ma il meglio di queste 27 lettere, da fratello a fratello, è in altre due lezioni di vita. La prima: una fiducia senza riserve nella giustizia. Oggi, qualunque ladro conclamato, purché dotato di una qualche rilevanza pubblica, strepita e urla, a ogni legittima condanna, contro una presunta “giustizia a orologeria”, contro le “sentenze politiche” o, banalmente, senza alcun argomento, contro le “sentenze ridicole”. Rispetto per le istituzioni e le regole condivise, oggi: zero. Leone Piccioni, nel rincuorare il fratello insiste ogni volta sul fatto che la magistratura avrebbe di sicuro corretto l’errore ristabilendo la verità. E ditemi voi se, al contrario, in quel caso non si trattò proprio di “giustizia a orologeria”: il coinvolgimento di Piero Piccioni fece fallire il tentativo del padre di formare un governo tra Dc e Psdi. La seconda lezione è un senso di quieta speranza – cristiana – che pervade queste lettere: mai Leone Piccioni si perde d’animo; sempre confida in quella che lui chiama Divina Provvidenza la quale avrebbe riequilibrato giustizia e valori. Non serve nemmeno fare esempi d’oggi per capire quale peso abbia questa seconda lezione. Che ci parla soprattutto di rispetto degli uomini e dei loro valori.
A due lezioni della storia corrispondono due verità che discendono dalla lettura di questo prezioso libro. La prima è che lo spessore morale della classe dirigente dell’Italia uscita a testa alta dal fascismo e dalla nefasta guerra che il fascismo criminalmente provocò (e pensare che oggi è tutto un inneggiare a quella efferata tirannide!), è infinitamente più alto e vigoroso della classe dirigente italiana d’oggi. Una schiatta di potere fatta di inetti, incolti (e si leggano invece i riferimenti letterari e musicali che pervadono le 27 lettere di Leone Piccioni), pressappochisti che ostentano la propria pochezza come un valore positivo; e chiamano popolo l’ignoranza! Ma, di contro, la seconda verità è che il marciume di oggi già infettava la nostra storia passata. Come è stato notato di recente, l’assassinio politico di Attilio Piccioni mediante l’artificioso coinvolgimento del figlio in uno scandalo con il quale non aveva alcunché da spartire, è gemello di una recente campagna di stampa contro il padre di Matteo Renzi. Mi riferisco a quella condotta con scellerata e inquietante lucidità da Marco Travaglio e dal suo giornale per strombazzare il cosiddetto caso Consip (da cui il padre dell’ex presidente del Consiglio è risultato totalmente estraneo) e che ha dato il là alla rovina politica di Matteo Renzi. Al punto che oggi, malgrado le evidenze giudiziarie, non c’è italiano medio (e mediamente ignorante) che non ritenga che Renzi abbia coperto i traffici del padre con i soldi dei cittadini. L’immoralità criminosa, la bassezza morale nel quale questa nostra disgraziata patria oggi sta morendo ha radici ben profonde, purtroppo.
Ecco perché, dunque, leggere Lungara 29 è come assistere a una bella lezione di storia. La quale, però, è al tempo stesso affascinante e inquietante.